giovedì 3 novembre 2016

L'ARTE MEDIEVALE ALLA FOCE

DANIELE CAGNIN


Premessa
            In questo “articolo” parleremo delle cinque opere d’arte di epoca medioevale presenti, ai nostri giorni, nel territorio della Foce Antica e più precisamente nella chiesa parrocchiale di Santa Maria dei Servi (“inaugurata” nel maggio 1972 dal Cardinale Giuseppe Siri): per un maggiore approfondimento consiglio la lettura della Guida storica – artistica Santa Maria dei Servi pubblicata nel 2002, disponibile anche presso la Biblioteca Servitana; dopo questo “primo passo”, il suggerimento successivo è la “visita”: probabilmente le avrete già visionate, forse con “occhi poco critici”.
Tali “manufatti” provengono dalla distrutta chiesa di Nostra Signora dei Servi che si trovava nel rione di via Madre di Dio prima della seconda guerra mondiale, quindi in un luogo lontano dal nostro quartiere, ma di quell’epoca è molto difficile ritrovare qualche “reperto originale” riconducibile alla Foce.
La fondazione del Borgo della Foce, come detto già più volte nelle precedenti ricerche1, è da fissare in un periodo compreso tra la fine del secolo XIV e l’inizio del secolo XV, e dalle fonti documentarie sappiamo che circa cent’anni dopo il “borgo” era composto da circa dieci case, quindi un numero limitato per poter lasciare un’eredità: va inoltre notato che la cappelletta di San Pietro (citata in un documento del 1448), fu demolita agli inizi del Seicento.
La “produzione artistica” che analizzeremo è la seguente: Tavola della Madonna della Misericordia di Barnaba da Modena (1377 – 1383), Lapide della Madonna della Misericordia di Pace Gaggini da Bissone (1476 ?), Lapide della Madonna con Gesù (della fine del secolo XV), L’Affresco del Santo Amore (1420 – 1430) e il Crocifisso dell’altare Maggiore (della seconda metà del XV)
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Tavola della Madonna della Misericordia (1377 – 1383)
L’opera in questione, un unicum nel panorama artistico, è senza dubbio l’oggetto d’arte più rappresentativo della chiesa di Santa Maria dei Servi. Esaminando la tavola, realizzata con la tecnica della tempera, si possono distinguere due “temi”, uno di carattere religioso, ed è il più evidente, il secondo di carattere sociale che si “svela” dopo averne studiato la storia.
La tavola può essere paragonata ad un ex–voto (la protezione per la peste del 1372) e rappresenta la Madonna della Misericordia o del Soccorso. Risulta originale poiché il tema degli “Angeli che dall’alto saettano frecce senza misericordia”2è in anticipo di circa un secolo sull’affresco eseguito da Benozzo Gozzoli, nel 1464 per la chiesa di Sant’Agostino a San Geminiano, che molti critici considerano il “primo”. Il manto della Vergine (di esclusiva ispirazione mariana) serve da “riparo” in quanto le persone che non sono sotto la sua “protezione” muoiono all’istante.
Tra i personaggi della tavola spiccano il Vescovo di Genova, che era frate domenicano, Andrea della Torre (milanese, in carica dal 1368 al 1377, 30 ottobre, giorno della sua morte), tre frati Servi di Maria (Ordine sorto nella Firenze del XIII secolo), altri religiosi, alcuni mercanti o artigiani (riconoscibili dalla foggia dei vestiti: da notare che esistono quattro “figure” ben definitive, si può ipotizzare che siano i priori della Consortia de li Foresteri3), alcune donne con i lineamenti poco definiti e rigorosamente divise dai quindici maschi: dei personaggi femminili sono distinguibili nove figure in bianco, sicuramente delle religiose, l’unica figura femminile ben definita è quella dai “capelli fluenti” con in capo un diadema: potrebbe essere la moglie del Duca albanese (citato negli statuti della compagnia sopra citata), e forse lo stesso autore Barnaba da Modena (che soggiornò a Genova dal 1361 al 1383, probabilmente insieme ad allievi senesi), implorante anche lui la sua parte di protezione contro il terribile male. Il gruppo di persone sopra nominate, sono tutte forestiere: una concentrazione così numerosa non deve sorprendere, anzi ci deve far riflettere su come in un epoca distante dalla nostra circa sette secoli, “l’ospite straniero” non era discriminato veniva accolto (probabilmente dovuto anche alle “ricchezze economiche” che portavano in dote), con ampio senso di tolleranza, sembra un inno all’universalismo.
Il periodo di realizzazione della tavola è stato ipotizzato in un intervallo compreso tra il 1377, la data di morte del Vescovo e il 1383, l’ultima data nota dell’autore a Genova. Il primo critico che attribuì al Barnaba la tavola fu lo studioso tedesco Wilhelm Suida nel 1906.
Cosa successe alla tavola del Barnaba durante i secoli?
Nel 1502 la chiesa dei Servi “ricevette una visita illustre”: il re di Francia, Luigi XII.
Fu ospite di Gian Luigi Fieschi, nel suo palazzo di via Lata; per sette giorni visitò molte chiese e palazzi di Genova, ma solo nella chiesa dei Servi compì la funzione caratteristica dei re di Francia (neanche nel Duomo o in altre chiese). Questo fatto si spiega con la presenza, nella chiesa, della compagnia dei forestieri, ed in particolare della copiosa presenza di francesi. Il 31 agosto il re «sul far de l’alba scese dalle alture»4per venerare la Beata Vergine Maria nella chiesa dei Servi, chiamato dai confratelli “foresti” per dare prova delle virtù miracolose che il cielo concedeva ai re francesi: guarire infermi ed in particolare gli scrofolosi. Ciò avvenne ed ad ogni guarito il monarca donava una moneta. In questa circostanza fu, affrettatamente, “restaurata la tavola”, che il fumo dei ceri e degli incensi, per oltre un secolo, ne aveva offuscato la bellezza primitiva: fu ridato l’oro e sul manto furono dipinti grossolanamente e di fretta undici gigli di Francia, probabilmente per «compier opera gradita al Re»5.
Durante la peste del 1532, il Senato della Repubblica, con a capo il “Serenissimo” Battista Spinola (figlio di Tommaso) si recò ad implorare l’aiuto di Maria Addolorata per la cessazione del tremendo flagello; a seguito di questa calamità Marcello Remondini6attribuì a questo secolo la “nostra tavola”7.
Agli inizi del Seicento i confratelli della Confraternita della Vergine dei Sette Dolori, sorta sul finire del XVI secolo, per manifestare la propria presenza all’interno della chiesa dei Servi, fecero dipingere sul petto della Madonna della Misericordia sette spade tolte poi con il restauro del 1952.
Durante le manifestazioni per la Giornata Mondiale della Gioventù, la tavola, dopo aver eseguito un intervento di restauro, è stata esposta nel museo diocesano di Cracovia.

Figura 1: Barnaba da Modena – Madonna della Misericordia



Lapide della Madonna della Misericordia (1476 ?)
Forse è opera dello scultore lombardo Pace Gaggini (o Gagini) da Bissone (di cui si hanno notizie nel periodo 1493 – 1522, figlio di Beltrame), le sue dimensioni attuali sono: altezza cm. 98,5, larghezza cm. 62,5. Era sicuramente di proprietà della Consortia de li Foresteri perché è ancora presente il tema della protezione della Vergine con il suo manto.
La riproduzione della Madonna è un’esile figura con le braccia poco proporzionate al corpo, e con mani molto grandi. Vi sono due angeli che reggono, come nel caso della tavola, il manto sotto al quale troviamo a sinistra delle persone maschili senza copricapo e a destra delle figure femminili con un velo sopra la testa.

Figura 2: Pace Gaggini da Bissone (?) – Lapide Madonna della Misericordia



Lapide della Madonna con Gesù (sec. XV)
Di che anno è?
Questa è la stessa domanda che si fece Adolfo Bassi8nella sua trattazione del 1928, perché purtroppo manca ogni riferimento temporale: il critico Federico Alizieri9, nel 1846, pur dubitando che una parte della lapide si celasse sotto all’intonaco, sperava di trovare la data e l’autore, ma la lapide è così come si vede ai giorni nostri.
Probabilmente è della fine del secolo XV, quindi di epoca successiva alla lapide precedente perché viene a mancare il “tema devozionale della protezione”: questa è anche la conclusione a cui arrivò il critico Mario Labò10nel 1927 ma soprattutto il già citato Alizieri11.
Si è usato il condizionale, sulla datazione, in quanto proprio il Bassi sostenne che l’uso dei caratteri gotici e non romani, come per altre lapidi di proprietà della consorzia, possa far risalire la lapide al 1414, l’anno di consacrazione “dell’altare di proprietà, o di epoca poco successiva.
Fu eseguita o, molto più probabilmente, commissionata da Corrado di Francoforte, socio o benefattore della Consortia de li Foresteri; le sue dimensioni attuali sono: altezza cm. 73,5, larghezza cm. 48. Per darne una descrizione precisa dell’immagine riporto le parole scritte dallo storico Remondini12: «L’atteggiamento del Bambino è veramente grazioso; ei tiene sul petto della madre distesa la mano sinistra, e si accosta bambinescamente alla bocca l’indice della destra. La Madonna poi che l’ha sui ginocchi, lo tiene fermo a mezza la personcina con una mano, e coll’altra tiene a piedi di lui un libro.»
Un’ultima osservazione: nella parte inferiore della lapide sono scolpiti due “vertici di triangolo” sormontati da due esigue croci; nessuno degli autori citati fin ora riporta tale raffigurazione … l’unico che ne fa menzione è il Portigliotti, il quale “sbriga la pratica” con la seguente frase: «simbolo o emblema di oscuro significato»13.
E’ possibile che non abbiano alcun valore artistico? Sarà un’aggiunta postuma? Sarà stato questo “secondario” fregio a far dubitare l’Alizieri sul fatto che la lapide non fosse completa?
Purtroppo a tutte queste domande non si potrà dare una risposta certa e sicura, mancando i documenti comprovatori si possono soltanto formulare delle ipotesi poco attendibili.

Figura 3: Anonimo secolo XV – Lapide della Madonna con Gesù



Affresco del Santo Amore
            Uno dei quesiti che ancora tutt’oggi, anche a seguito del restauro del 2013, non ha trovato una soluzione definitiva, è il nome del pittore. Consultando le fonti a disposizione in maniera cronologica notiamo che tutte si contraddicono: agli inizi del Novecento il Novella14ci riferisce che fu eseguito dal pavese Lorenzo Fazolo15, negli anni venti del secolo scorso il Labò lo attribuisce ad un quattrocentista ritardatario16, da un pubblicazione17relativamente recente l’autore è fatto coincidere (forse per una questione “campanilistica”) con Andrea d’Alessandria, frate Servo di Maria. A seguito del restauro, la “lettura iconografica” pone come intervallo temporale il decennio compreso tra il 1420 e il 143018, lasciando anonimo l’artista.
Chi ebbe la possibilità di esaminare l’affresco prima del 1942, poté notare che fu eseguito in due riprese.
La “parte centrale” rappresenta una MADONNA DI MAESTA’ di tipo trecentesco ed era circondato da due lesene19che reggevano una cimasa20.
Nella “fascia circostante” furono dipinti, in un secondo tempo, dei personaggi biblici (quelli attualmente rimasti sono i profeti Giona e Geremia, il patriarca Giacobbe e i re Davide e Salomone), delle teste di cherubini e Cristo fuori del sepolcro: quest’ultimo fu quasi distrutto per murare il ciborio21in un altarino e il tutto era sormontato da un “arco scemo”, entro cui era dipinto “Dio Padre Benedicente”, anche quest’opera fu realizzata da un pittore ligure – lombardo nel Cinquecento.
L’intero affresco fu disposto in una cornice marmorea di epoca rinascimentale, eseguita nel 1506 ed attribuibile ai fratelli Giovanni e Michele D’Aria di Como22, era sicuramente una delle cornici di altari più perfette che esistevano in Genova.
L’altare, invece, fu rifinito probabilmente da Giovanni d’Alessandria (frate Servo di Maria) non escludendo che possa essere il “dedicatore” dell’altare stesso: questo lo sappiamo da un iscrizione che era presente nella parte inferiore che recitava «Frater Johannes de Alexandria Ordinis Sancte Marie Verginis Jesus Christi Amor MDVI»23.
Nel corso dei secoli lo stesso affresco fu ritoccato «ne` panni»24e contraffatto dagli ex–voto dei fedeli. Il manto era stato dipinto con un costoso lapislazzulo, con del cinabro lo sfondo rosso, decorato in origine come un “tessuto operato”: nella prima metà dell’Ottocento fu eseguito un restauro (il Bartoletti25sostiene che fu uno sciagurato intervento nel corso del XIX secolo) riguardante il manto, eseguendolo con il blu di Prussia con del cromato di piombo. Altro restauro26fu eseguito, in maniera molto frettolosa, nel 1944: l’intervento moderno ha restituito la migliore leggibilità possibile a un dipinto, ancorché frammentario, soffocato e snaturato dallo stesso restauro del 1944.
Dal Libro delle Memorie del Convento (periodo 1818 – 1942), veniamo a sapere che nel XIX secolo l’affresco “avrebbe operato” due miracoli: il primo è registrato il 19 gennaio 1819 di una parrocchiana che si trasferì in Medio Oriente; il secondo è datato 8 agosto 1884, e il nome della parrocchiana è Caterina Cabella.

Figura 4: Anonimo 1420 - 1440 - Affresco del Santo Amore



Crocifisso dell’Altar Maggiore
Da sempre attribuito ad Anton Maria Maragliano (1666 – 1739 o 1664 – 1731), o forse alla sua scuola, a seguito del restauro conservativo (eseguito nel triennio 2009 – 2011), tale affermazione non trova più un riscontro attendibile: l’opera è da retrodatare e collocare nella seconda metà del secolo XV.
Possiamo supporre che il Maragliano, o la sua scuola, eseguì un “lavoro di restauro” sul finire del Seicento: in questa fase fu ridato il colore.
Un’ulteriore “lavoro di consolidamento” fu eseguito nell’Ottocento: nel retro del corpo è stata ritrovata una carta incollata che riporta la data del 28 ottobre 1840; anche in questa occasione fu ridato il colore, furono aggiunti, però, i seguenti elementi: barba e capelli, il “perizoma a svolazzo”, il cartiglio e la croce lignea dal colore nero.
Anche gli autori citati fin ora sostengono che tale crocifisso non appartiene né al Maragliano né alla sua scuola: il Novella27lo cita con “beneficio di inventario”, mentre il Labó28riferisce che esso potrebbe essere anteriore al periodo del Maragliano.

Figura 5: Anonimo secolo XV - Crocifisso
NOTE
1          In merito si consiglia la lettura dell’articolo La Chiesa di San Pietro nel Borgo della Foce…quattrocento anni di storia (anticafoce.blogspot.it, settembre 2015).
2          Questa credenza, secondo una comune mentalità medioevale, rappresenta lo strumento della divina giustizia irata; tale concetto lo ritroviamo anche nelle credenze popolari legate alla leggenda sulla peste di Roma dell’anno 590, descritte da Jacopo da Varazze, il quale racconta che si vedevano delle saette scendere dal cielo.
3          Il nome della confraternita (fondata ufficialmente il 10 agosto 1393) non è uniforme: Consortia, Societas Foresterorum o Exterorum; fu chiamata anche “Compagnia delle Quattro Nazioni” (come si poteva vedere all’Archivio Arcivescovile, “Scatola di Sant’Andrea” e “Scatola di Santa Maria dei Servi”, a seguito della seconda guerra mondiale tali documenti rimasero distrutti da una bomba che colpì l’edificio)*, cioè della Romana che comprendeva anche “popoli” napoletani e toscani, della Lombarda nella quale erano rappresentati veneziani e piemontesi, della Tedesca e della Francese; anche in questi due ultimi casi erano compresi altri popoli; forse gli unici non rappresentati erano gli inglesi e gli spagnoli, probabilmente per problemi politici: in un secondo tempo, quest’ultimi, prevalsero e con la loro ostilità la fecero decadere agli inizi del Seicento.
In epoca successiva fu chiamata Società di Santa Barbara. Essendo rappresentate quattro nazioni, gli statuti (scoperti agli inizi del ventesimo secolo, e che erano stati approvati ufficialmente il 19 aprile 1480, periodo in cui la “società” era nel massimo splendore, dal Cardinale Arcivescovo Paolo di Campofregoso) della confraternita prevedevano che ogni anno i “sindaci” (o priori) dovessero essere quattro, uno per ogni “nazione” e affiancati da consiglieri che potevano essere anche donne.
Per approfondire le conoscenze su questa società si possono visionare i seguenti libri: CASSIANO DA LANGASCO – P. ROTONDI; La Consortia de li foresteri a Genova, una Madonna di Barnaba da Modena e uno statuto del Trecento […], Genova 1957, p. 7 (B.B.G., Gen C 209); A. BASSI, Giornale Storico Letterario, Genova 1928 (B.B.G., GenB 245/11). La nascita di queste “confraternite straniere” era una costante anche di altri conventi servitani d’Italia, come Perugia, Viterbo e Firenze, ma tutti di epoca successiva a questa genovese.
4          A. BASSI, Giornale Storico Letterario, Genova 1928, p. 27.
5          Idem.
6          M. REMONDINI, I Santuari e le immagini di Maria a Genova, p. 153, Genova 1865.
7          Altri la considerarono un “residuo” del polittico di Pietro Resaliba; fu venerata da molti fedeli questa immagine (la stessa alla quale il governo genovese dell’epoca chiedeva aiuto per la fine delle epidemie); le cronache del tempo ci riferiscono che nella zona della chiesa dei Servi avvennero alcuni miracoli: in tutti i casi ai graziati comparve l’immagine sopra descritta. Sarà per questo motivo che la popolazione era molto devota alla “Madonna dei Servi”.
8          BASSI, Giornale Storico, p. 25.
9          F. ALIZIERI, Guida artistica per la città di Genova, vol. 1, Genova 1846, p. 236.
10        G. A. M. BONO – M. LABO’, Nostra Signora dei Servi – Le chiese di Genova illustrate – Vol. 3, Genova 1927, pp. 31 – 32.
11         ALIZIERI, Guida artistica, p. 237.
12        REMONDINI, I Santuari, p. 153.
13        G. PORTIGLIOTTI, L’Ospedale dei Foresti in Il Raccoglitore Ligure, Genova 1933, p. 4.
14        P. NOVELLA, Memorie Storiche Genovesi – Santa Maria dei Servi in Settimana Religiosa del 1904, p. 462.
15        Lorenzo Fazzolo (o Fasolo, di cui si ha notizia nel periodo 1463 – 1516) di Pavia fu colui che nel 1510 ricevette incarico, dai soci della “corporazione dei fornai”, nata all’inizio del Cinquecento, per la realizzazione di due opere d’arte: l’8 febbraio un’ancona di notevoli dimensioni («dieci palmi di larghezza, quattordici di altezza») e il 30 luglio gli affreschi della loro cappella (obbligandolo a restaurarli se entro un anno si fossero formate delle macchie d’umido); l’ancona scomparve, dell’affresco, nei primi decenni del secolo scorso, ne rimase una traccia piccolissima, consistente in una testa d’angelo.
16        BONO – LABO’, Nostra Signora dei Servi, p. 32.
17        U. FORCONI, Chiese e Conventi dell’Ordine dei Servi di Maria – Quaderni e notizie, Viareggio 1978, vol. 3, p. 20 e p. 117.
18        MASSIMO BARTOLETTI, La Madonna del Santo Amore: due momenti figurativi a Genova, tra Gotico “cortese” e Rinascimento “all’antica” in La Madonna del Santo Amore in La Madonna del Santo Amore restaurata e riconsegnata alla chiesa di Nostra Signora dei Servi a Genova, Genova 2014, p. 36.
19        Per LESENA si intende un pilastro che sporge appena da un muro e ha funzione unicamente decorativa.
20        Per CIMASA si intende la parte superiore della cornice di una porta, di una finestra o di una tavola dipinta.
21        Per CIBORIO si intende l’edicola con quattro colonnine poste sopra alcuni altari; nelle chiese paleocristiane e romaniche era collocato sopra l’altar maggiore.
22        NOVELLA, Memorie Storiche, p. 462.
23        BONO – LABO’, Nostra Signora dei Servi, p. 32.
24        ALIZIERI, Guida artistica, p. 232.
25        BARTOLETTI, La Madonna del Santo Amore, p. 37.
26        Idem.
27        NOVELLA, Memorie Storiche, p. 473.
28        BONO – LABO’, Nostra Signora dei Servi, p. 39.


lunedì 23 maggio 2016

LA PIANA DEL BISAGNO

Daniele Cagnin & Severino Fossati
Generalità
I Confini - Descrizione - La visione moderna –
L’idrografia – Gli argini – La copertura –
Le attività produttive –La viabilità – I Borghi – I Comuni della Piana
La Piana del Bisagno1è limitata a levante dalla collina di Albaro e dalla cresta di San Martino, a settentrione dalle alture di Marassi e a ponente dalla collina di Carignano, dalla cresta che da questa collina si staccava verso l’Acquasola e poi le colline dello Zerbino e di Montesano nuovamente a nord.
DescrizioneDa Punta Vagno iniziava una cresta perpendicolare alla linea di costa da cui si staccava il promontorio che da via San Vito scendeva in via Morin fino quasi in via Cravero: tra questo promontorio e quello di Punta Vagno vi era la valletta di via Podgora, il cui rio più o meno scendeva da piazza Merani.
Parallelamente a questa cresta, ne correva un’altra formando la valletta dell’attuale via Piave. In questo caso si vede come il livello degli spazi tra i palazzi sia molto basso: via Cesare Battisti, è tutta più alta dei giardini, a levante, tra il primo palazzo e la vecchia scuola Diaz, prima del 1950, vi erano orti2che partivano da una altezza di circa tre metri sotto il livello della via e salivano fino a via Lavinia.
Analogamente via San Nazaro è sulla cresta che separa a levante la valletta di via Piave dalla successiva sul cui fondo oggi c’è la via al Forte di San Giuliano: le due vie (Lavinia e San Nazaro) si uniscono ancora oggi, separatamente, a via Albaro. Il versante occidentale della collina di Albaro era piuttosto ripido; infatti le vie che salivano dalla piana a via Lavinia o via Albaro correvano molto parallelamente alla cresta.
Oggi4le strade sono quasi ovunque più alte per motivi tecnici: nell’attuazione del Piano Regolatore si notò che si doveva arrivare al mare con delle fognature piuttosto grandi, aventi una pendenza sufficiente dovendo raccogliere oltre alle acque della nuova area urbana, anche quelle del torrente Rovare, in caso contrario le strade al primo forte acquazzone si sarebbero allagate.
Inoltre altri motivi, come il passaggio delle linee tranviarie, il taglio del promontorio che chiudeva il Borgo della Foce, hanno consigliato un ulteriore innalzamento e quindi la necessità di raccordare le vie limitrofe. Così via Morin, nel tratto tra via Rimassa e via Cravero per collegare via Rimassa con via Casaregis è in salita, lo è meno via San Pietro della Foce, e per niente via Cecchi.
La piana alluvionale era ed è tuttora molto ricca d’acque sotterranee, come dimostrano i numerosi pozzi visibili nelle rappresentazioni iconografiche: vi sono anche numerose sorgenti.
Una piccola sorgente si trovava davanti all’attuale chiesa di San Pietro e più precisamente tra il capo ove si trova la chiesa stessa ed il promontorio che scendeva su via Casaregis. L’acqua, almeno una parte, arrivava in corso Italia all’inizio del muraglione di contenimento della salita Fogliensi; sotto la chiesa era presente una “fonte perenne”, ma ultimamente, dopo la costruzione del parcheggio sotterraneo di via Nizza, l’acqua non è più comparsa: probabilmente scendeva in corso Italia.
Altra piccola sorgente doveva trovarsi in salita Vignola: infatti nell’angolo ove via Casaregis inizia ad essere alberata vi era una fontanella, segno che l’acqua della fonte pubblica era stata incanalata e in sostituzione si era posto la fontanella collegata all’acquedotto.
Altra sorgente importante era presso via Saluzzo: oggi è ricordata da una lapide posta presso la scalinata, copia di una precedente del 1437, epoca in cui quell’acqua divenne pubblica. Questa sorgente dava luogo ad un piccolo rio che era detto Aqualonga che raggiungeva il mare.
Dalla collina dei Camaldoli scende il rio delle Rovare e da quella di Santa Tecla il rio Noce che si univano nella zona di Terralba, per gettarsi nel Bisagno. In passato questo rio si doveva gettare nel Bisagno all’altezza di Borgo Pila, nell’ansa dell’argine creato nel Cinquecento. In seguito ad una alluvione (forse), il rio cambiò il corso, gettandosi nel Bisagno più a monte, poco a valle del ponte di Sant’Agata: così appare in un carta del Settecento5. Nella piana posta a destra del Bisagno, il più importante era il rio Gropallo che scendeva dalla valletta della villa omonima, gettandosi nel Bisagno, pare nella zona dell’attuale Questura, dopo aver raccolto le acque di altri piccoli rii, tra cui quello che scende dal Cavalletto.
Le numerose alluvioni con gli apporti di limo hanno arricchito il terreno della piana, contemporaneamente però il Bisagno rappresentava un pericolo continuo, proprio per le numerose esondazioni, in quanto non esistevano gli argini; per porvi rimedio nella seconda metà del Cinquecento, la famiglia Doria costruì gli argini a partire dalla zona della Foce, anche perché a loro serviva una strada agevole, in piano, per raggiungere la villa posta nella località oggi detta della Doria, villa costruita nel 1557. Lungo questi argini nasce la via Rivale, che dal mare arrivava al Borgo Pila.
Tali argini hanno funzionato fino alla fine dell’Ottocento.
Nel 1808 un progetto del cartografo Giacomo Agostino Brusco (deceduto nel 1817) prevedeva un raddrizzamento del corso del torrente, nella parte riguardante la piana: tale progetto prevedeva il taglio di buona parte del Borgo Pila (vedi figura 1).
Nel 1908 gli argini furono raddrizzati parzialmente nella parte terminale, cioè nella zona della piana: da tempo si ipotizzava la copertura del torrente. Solo tra il 1928 ed il 1933 fu realizzato il progetto della copertura, dalla ferrovia all’altezza di via Cecchi (allora ancora piazza del Popolo). Nel 1934 si decise di completare l’opera di copertura che fu ultimata nel 1935, con due pennelli a mare che ne proteggevano lateralmente lo sbocco.
Negli ultimi anni, dal 2008 sono iniziati i lavori di rifacimento della copertura, con l’abbassamento del fondo per aumentarne la capacità di flusso delle acque: a tutt’oggi, sono terminati i lavori di rifacimento della prima parte, quella dal mare fino all’altezza di via Carlo Barabino.
Tutte queste acque rendevano la piana molto fertile e adatta alle colture di ortaggi.
Fra le attività nella piana che sfruttavano l’abbondante acqua, vi era quella molitoria: non sembra che si producessero cereali, ma verdure, frutta e olive. È accertata la presenza nel XVIII secolo di un mulino ad acqua, che si trovava nella zona compresa tra i due ultimi palazzi di corso Torino verso il mare. Questo mulino utilizzava le acque del rio Acqualonga che poi si dividevano in due canali, di cui uno andava verso il Lazzaretto e l’altro verso il Borgo di Rivale (vedi figura 2 e figura 3).
Nell’area del lazzaretto confluiva un canale proveniente da un mulino posto all’esterno: esiste un documento, un contratto6del 1630, in cui si fa cenno alla costruzione di un canale che dal centro del “muro a monte”, va a finire nel Bisagno passando nei pressi del centro del “muro di ponente”. Nella mappa catastale del 1808 (vedi figura 3), vi è un canale che proviene da una costruzione complessa che si trovava nei pressi dell’attuale Asilo infantile della Foce, e che si dirige verso il centro del muro di cinta del lazzaretto con una angolazione di circa quarantacinque gradi. All’interno della cinta è segnato un percorso come descritto nel documento del 1630, ma, all’entrata, secondo la mappa, il percorso si sdoppia ed un ramo si dirige verso il mare; su questo percorso si prolunga la scritta in francese, Canal des mulins.

Riferendosi alla rappresentazione del Torricelli (Figura 4), all’interno del Lazzaretto si vedono tre pozzi a bilanciere posti sul percorso diretto a mare, perfettamente allineati. Ciò vuol dire che in origine l’acqua di scarico del mulino andava a mare direttamente, ma nel 1630 si vuol deviare il corso dell’acqua per prosciugare il Lazzaretto, e si da ordine di costruire il letto del nuovo canale a regola d’arte.
L’area era in ogni tempo necessariamente attraversata da strade che collegavano la città di Genova con la Riviera di Levante: la più antica è forse l’Aurelia che è stata trovata in via san Vincenzo, ma che nel Medioevo e in età Moderna è stata frequentata, con le opportune varianti attraversando il Bisagno con il ponte di Sant’Agata. Una seconda strada, partendo dalla stessa origine, attraversava il Bisagno utilizzando il ponte Pila, più a valle per salire in Albaro. Era già utilizzata nel XIII secolo, come si è saputo dallo scavo archeologico7di piazza della Vittoria. Oltre a queste due, vi era una serie di stradine ad uso locale, come quelle fatte sugli argini. A causa delle frequenti esondazioni del torrente, il ponte Pila veniva spesso distrutto, finché verso la metà dell’Ottocento, fu costruito un ponte8parzialmente in ferro e la via Minerva9(oggi corso Buenos Aires), facente parte della via Nazionale per la Toscana, sopraelevata su un terrapieno alto cinque metri rispetto alla piana, per preservarla dalle alluvioni.
A queste due strade vanno aggiunte le strade minori che collegavano i vari Borghi tra loro e la via principale di transito, quella del ponte Pila che serviva di collegamento con la città.
Nella piana10esistevano vari “centri abitati”, quasi tutti attorno alle strade principali: sulla parte della sponda destra, il Borgo Bisagno sottano che divenne poi il Borgo o Sestiere di San Vincenzo e Bisagno soprano che comprendeva Borgo Incrociati, nati attorno alla strada più antica. Sulla sponda sinistra, vi era il Borgo di Santa Agata e poi San Fruttuoso sulla strada più a monte, mentre su quella a valle in corrispondenza del ponte il Borgo detto della Pila. A questi borghi vanno aggiunti quello di Rivale, sulla via omonima e quello della Foce11, unico non collegato ad una via, chiuso tra il mare, la collina ed il Lazzaretto o cantiere navale, sorto grazie alla attività della pesca.
Nel 1874 si ebbe l’annessione12al Comune di Genova assieme ad altri comuni del levante, quelli di Marassi, Staglieno, San Fruttuoso, San Martino e Albaro: ciò permise la realizzazione del progetto di inurbanamento della piana. Il piano regolatore del 1877 prevedeva una sistemazione simile a quella poi realizzata, ma con alcune differenze importanti: in quel “piano urbanistico” venivano conservati i borghi Pila, Rivale e Foce; anche il Cantiere Navale e il Lazzaretto venivano conservati. Nella prevista piazza Palermo doveva essere costruita una chiesa. Via Casaregis terminava fino alla attuale parte alberata, cioè limitata all’attuale via Ruspoli. Lo spazio comprendente oggi via Cecchi e via Ruspoli costituiva la piazza del Popolo In un primo tempo il piano avrebbe dovuto prevedere la deviazione del torrente Bisagno verso levante, ai piedi della collina di Albaro, in modo da rendere tutta la piana disponibile ai nuovi insediamenti, ma, considerando eccessiva la spesa cui avrebbero dovuto concorrere i privati, si rinunciò, limitandosi alla costruzione di nuovi argini più rettilinei.
NOTE
1              L’etimologia del nome Bisagno: potrebbe derivare da una nome composto latino bis – amnis: da tradurre in “due fiumi”.
Nell’anno 987 la Piana del Bisagno, nell’area della Foce, risulta di proprietà dei monaci Bendettini: Cum decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per fines et spacia locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica usque in mare.
2              I “manenti” che avevano l’abitazione in via Lavinia, sopra gli orti, la domenica vendevano in via Battisti i loro prodotti a chi usciva dalla messa allora celebrata nella palestra della scuola.
3              Di una crosa denominata “San Nazaro”, si ha notizia fin dal 1345 (AGOSTINO OLIVIERI, Carte e cronache manoscritte per la storia Genovese esistenti nella biblioteca della R. Università Ligure, Genova 1855, p. 40).
4              Per completezza di informazione aggiungiamo che anche via Caffa, da piazza Tommaseo a piazza Alimonda e quindi verso via Tolemaide è in salita per il raccordo con corso Gastaldi che in parte è su sede artificiale per poter raggiungere via San Martino. Sono invece rimaste escluse da questa sistemazione Via Minerva (Corso Buenos Aires) e via della Libertà perché costruite prima singolarmente, senza un vero piano regolatore generale.
5              Stato della Repubblica di Genova, da Genova Voltri a Genova Quarto (A.S.G., Fondo Cartografico, GENOVA 16, busta 7 – nº 318): Carte de Gênes, 1748. Carta dimostrativa di piccola parte dello Stato della Repubblica di Genova, compresa tra Voltri e nella Riviera di Ponente e Quinto in quella di Levante, indi sino al Borgo de’ Fornari.
6              LAVAGNINO GIOVANNI FRANCESCO, Promissio pro Fabrica, 5 settembre 1630, filza 63, (A.S.G., Notai Antichi, n° generale d’ordine 5080).
Nella mappa catastale del 1808 compare anche un altro canale che parte sempre dalla stessa costruzione, più angolato chiamato Canal de Rivale, e che giunge presso le case del piccolo borgo posto all’angolo nord-occidentale del Lazzaretto. Bisogna dire però che questo canale appare più una strada, anche perché circa dalla metà, parte una strada che si collega con un’altra posta più a monte. Probabilmente si tratta di un toponimo relativo ad una fase precedente, ma che è rimasto anche quando l’acqua o è stata deviata in tubazioni o il mulino ha cessato di funzionare  e quindi il corso d’acqua è diventato una stradina.
7              Tre ritrovamenti collocanti nel XIII secolo per un tratto di strada larga circa cinque metri, nel XIV secolo per un ponte ad arcata singola, un piccolo tratto di strada e alcune “prime strutture insediative”, nel XV secolo per un tratto di strada larga circa sei metri.
La piana era limitata a monte da una strada già esistente in epoca romana, via san Vincenzo e via san Fruttuoso. Una seconda strada costruita  più a valle era presente dal Medioevo, quella che, partendo come la precedente dalla chiesa di Santo Stefano attraversava la piana anziché aggirarla, passava attraverso il ponte Pila, via Santa Zita via Beverato e poi si dirigeva verso la sella di Albaro, salendo per via Saluzzo e seguendo l’attuale via Albaro, Pare che nella zona di via Saluzzo ci fosse un abbeveratoio da cui sarebbe derivato il nome di Beviou, Beverato.
8              CF. Progetto per la realizzazione delle “muraglie” del Ponte Pila in sostituzione di quello preesistente in legno (28 dicembre 1783) – (A.S.G., Fondo Cartografico, Genova 41).
9              Sotto il governo dei Savoia furono progettate nuove strade carrozzabili: tra queste la Strada reale di Levante, che dalla porta Pila doveva portare verso il levante ligure, utilizzando il nuovo ponte in ferro della Pila, che aveva sostituito il vecchio ponte più volte demolito dalle piene del Bisagno e che dal Medioevo attraversava il torrente entrando nel Borgo Pila.
La nuova strada, costruita su progetto di Francesco Argenti del 1851: terminava come l’attuale nella zona di piazza Tommaseo, area che allora era detta della Tavola, da cui partiva un’altra via che oggi è ricalcata dal tracciato di via Montevideo. Il progetto prevedeva anche la sistemazione della chiesa di Santa Zita che in futuro avrebbe sostituito la vecchia da demolire. Questa nuova strada forniva un nuovo itinerario per raggiungere il Levante sostituendo quello che utilizzava il ponte di Sant’Agata e via San Fruttuoso: esisteva già un itinerario alternativo, che dal ponte Pila seguiva l’argine del Bisagno verso monte per un centinaio di metri e poi dirigeva a levante attraverso gli orti e saliva fino a San Martino a mezza costa. Il percorso era però poco adatto alle grandi comunicazioni, trattandosi di una strada poco più che d’uso campestre. Verrà utilizzato in parte per la costruzione della nuova via, nel tratto che oggi, rettificato, corrisponde a corso Gastaldi.
Il tracciato di corso Buenos Aires risultò in seguito non coordinato con il grande piano regolatore proposto e poi realizzato, dopo l’annessione al Comune di Genova, perché era stato un progetto limitato: per questa ragione il corso non risulta oggi perpendicolare a corso Torino o via Casaregis, non solo, ma siccome il piano di Argenti prevedeva anche la costruzione di edifici, le isole, al momento dell’edificazione delle vie perpendicolari, gli edifici esistenti risultarono non inseriti, come accade in modo evidente nell’incrocio con corso Torino lato ponente, che sono due delle prime case costruite. Fra l’altro, va ricordato che il palazzo a sud, che dà su piazza Savonarola, appare incompleto dal lato della piazza, e che sembra abbracciare una piccola costruzione che evidentemente era preesistente: si tratta dello studio dello scultore Santo Saccomanno (1833 – 1914), noto per lavori eseguiti nel Cimitero di Staglieno. Nello studio, ospitò personalità del Risorgimento come Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II, come afferma una lapide posta presso l’uscio, e perciò, il piccolo edificio quindi divenne monumento nazionale.
10            In un atto del 3 marzo 1465 (Sindicatus Plane Bisannis) sono citati alcuni “centri abitati” che comprendevano il distretto (o regione) del Bisagno rappresentati da un certo Benedetto De Cairo: Sturla, Quezzi, Marassi e Albaro. (ANDREA DE CAIRO, atto n° 59, A.S.G., Notari Antichi, filza n° 20, n° generale 800).
11            Il Borgo della Foce inizia ad essere abitato tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV.

12            Regio Decreto N° 1683 del 26 ottobre 1873.

mercoledì 20 gennaio 2016

LE CAPPELLE DEL BORGO DEL RIVALE

Cagnin Daniele

In una “porzione” del territorio della Foce antica, chiamato Borgo del Rivale1(che nella sua massima “espansione” – secolo XIX – ha raggiunto il maggior numero di abitazioni, circa dieci), erano presenti due piccoli edifici religiosi, dipendenti dalla parrocchia di San Francesco di Albaro: la cappella intitolata alla Madonna Lauretana2, sita all’interno del Lazzaretto e la Cappelletta posizionata all’esterno del ricovero (forse presente nell’incisione del Torricelli) e nella quale era presente la Confraternita di Nostra Signora del Santo Amore.
Per entrambi gli edifici sacri sono state reperite pochissime notizie, alcune delle quali appaiono poco attendibili: una è attinente alla presunta data di fondazione della cappella interna al Lazzaretto, desunta dal Novella3, il quale la fissa all’anno 1522. Tale data non può essere considerata credibile in quanto nella relazione4di Monsignor Bossio la “chiesetta” non risulta nell’elenco.
Le prime notizie “documentate” sui due edifici religiosi le troviamo in un atto5notarile datato 5 settembre 1630, nel quale viene affermato che il canale dell’Acqualonga6attraversa il muro di cinta del Lazzaretto fra le due chiese: non vengono riportate le dedicazioni delle due costruzioni e sembrerebbero entrambe essere “dipendenze” del nosocomio.
Nei documenti7della Repubblica Ligure di fine Settecento è fatto cenno alla Confraternita sopra menzionata, la quale, verosimilmente, fu soppressa nel periodo napoleonico.
Il periodo di fine dell’Ottocento è interamente documentato dal Remondini8, dal quale apprendiamo che nel 1837 la cappella del Lazzaretto era ancora aperta, mentre nel 1863 risultava chiusa; entrambe le date vengono riprese dal Novella.
Dalla “mappa catastale”9di fine Ottocento, l’unico edificio ubicato in via della Cappelletta (vedi figura 2) era una casa di abitazione del personale addetto al Lazzaretto e un convento per monache.
In un manoscritto10, consultabile presso l’archivio storico della curia arcivescovile, si sono ritrovati i nomi degli ultimi incaricati della cappella del Lazzaretto: per l’anno 1887 è presente Natale Canessa, per il 1890 Prospero Ansaldo e per il 1892 Giuseppe Olivieri.





Figura 2: Toponomastica

NOTE

1          Il Borgo prendeva il nome dalla sua posizione presso la riva del Bisagno, come d’altra parte la via omonima che “correva” presso gli argini: ai nostri giorni via Rivale è limitata nella zona di Borgo Pila, ma in origine iniziava dal mare. (CF. SEVERINO FOSSATI, Il Borgo del Rivale, novembre 2014 (http/antifoce.blogspot.it).
2          Tale dedicazione è stata riscontrata, nel 1880 dal Remondini, all’interno del convento di San Francesco di Albaro in una lapide che riportava una compera nel Banco di San Giorgio per l’anno 1629: Comperts S. Georgii … Beatae Mariae de Loreto situm in Fuce Bisannis.
3          PAOLO NOVELLA, Lazzaretto della Foce in La Settimana Religiosa del 1932, p. 488: «Quivi pure nel 1522 fondavasi una cappella sotto il nome di N. S. di Loreto che nel 1650 ingrandita fu concessa ai Missionari di S. Vincenzo di Paoli».
4          FRANCESCO BOSSIO, Liber Viitationum (A.S.G., Manoscritti, N° 547).
5          LAVAGNINO GIOVANNI FRANCESCO, Promissio pro Fabrica, 5 settembre 1630, filza 63, (A.S.G., Notai Antichi, n° generale d’ordine 5080).
6          Nella zona della Foce antica era presente una sorgente che era sita presso l’attuale via Saluzzo: oggi è ricordata da una lapide posta presso la scalinata, copia di una precedente del 1437, epoca in cui quell’acqua divenne pubblica; questa sorgente dava luogo ad un piccolo rio che era detto Aqualonga che raggiungeva il mare.
7          A.S.G., Repubblica Ligure, N° 202.
8          ANGELO REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, Genova 1882, p. 93.
9          A.S.G., Catasto, mappa n° 201 e n° 216.
10        A.S.C.A., Scatola Foce.