di Benito Poggio
Fiore in to gotto Il fiore nel bicchiere
Gh’èa un çè frèido e lontan Il
cielo era freddo e lontano
de dato a-o bosco instecchio, sopra al bosco isterilito,
ma in ti ciànelli zà verdi ma sui pianori già
verdi
s’avrivan i colchici lilla; germogliavano
i fiori azzurrini;
ai pè de qualche muagetta ai
piedi di qualche muretto
spuntava a primma
viovetta. spuntava
la prima violetta.
Campann-e vegnivan a sciammi E le campane rintoccavano
da-e lontananze di monti, in
lontananza dai monti,
da-i orizonti di anni, dagli anni ormai trascorsi,
quande me paiva che o mondo allorché mi sembrava che il mondo
nasciuo o fosse con
mi. fosse
proprio nato con me.
Aegue de primmaveja Acque
primaverili
sott’a-e rammette fiorie, sotto
i rametti in fiore,
comme me paiva che alloa come
mi pareva allora
cantasci solo pe mi! che gorgogliaste soltanto per me!
Oh carovane de nuvie Oh masse di nuvole
calme ai tramonti in sce-o mà quiete nei tramonti sul mare
e contemplae dietro a-i veddri, e contemplate dietro ai vetri
quanto m’éi faeto
pensà! quanto mi avete fatto rimuginare!
Me mèue Odisseo in te l’anima: Mi muore l’Ulisse che è in me:
pe sempre cazze a mae veja: la mia vela si ammaina per sempre:
ritorno sens’ese
partio. ritorno ancor prima d’essere partito.
E òua me lascio portà Ed ora mi lascio trasportare
e navego comme in te un fjord e navigo come fossi lungo un fiordo
da l’aegua morta e profonda dove l’acqua è calma e profonda
in t’unna taera do
nord. in un lontano paese del nord.
Malinconia Malinconia,
comme ciù fito deo tempo tu distruggi le vicende del mondo
ti desfi e cose do mondo! ancor più velocemente del tempo!
Ma e primmaveje ritornan Ma le primavere fanno ritorno
e mi rinascio con lò. e anch’io rinasco con esse.
Son comme o fiore in to gotto Sono come il fiore nel bicchiere
che mentre u mèue cianin che mentre muore poco a poco
pe ogni sò che
ritorna ogni volta che c’è un po’ di sole
o se repiggia un
pittin. riprende un poco di brio.
La poesia che ho
appena citato (e da me resa in italiano senza pretese di precisione, come tutte
le altre qui riportate), fu pubblicata a Genova oltre ottant’anni fa, nel 1935,
dall’editore Emiliano degli Orfini, nella raccolta omonima ed era preceduta da
una prefazione di Eugenio Montale, il quale esprimeva, pur parco di elogi
com’era per natura, lode e apprezzamento per la felice ispirazione di Firpo,
per l’inconsueto equilibrio di espressione e per la sua particolare misura di
linguaggio. Tutti possono cogliere quell’inizio così piano e colloquiale, ma
così denso di senso poetico soggettivo (perché è il poeta che tale lo
percepisce) e nel contempo universale (perché ogni lettore e tutti noi
lo percepiamo così col poeta):
“Gh’èa un çè frèido e
lontan” C’era un cielo freddo e lontano,
cielo freddo e
lontano che, come una pesante cappa, si contrappone o meglio, si bilancia,
quaggiù, sulla terra col
“bosco instecchio” un bosco isterilito, sparso di radi arbusti
rinsecchiti: