sabato 25 aprile 2015

IL BISAGNO

Francesco Boero
(Bauer)

O BESAGNO   




 Anche se ci sono altre ipotesi, è abbastanza probabile che il toponimo Foce sia da mettere in relazione con il fatto che nella zona sfocia in mare il torrente Bisagno, che nasce a circa 30 km a valle nella zona della Scoffera sull'Appennino Ligure e che scende con regime molto incostante lungo una valle che nella zona pianeggiante (Borgo Incrociati) raggiungeva anche i 400 metri di ampiezza.
    Verso la metà dell'Ottocento inizia l'opera di arginatura per sottrarre ampi spazi del greto.Queste spese di arginatura venivano ripartite tra i comuni interessati, che, oltre a Genova, erano quelli di Staglieno, Marassi, San Fruttuoso, san Francesco d'Albaro e della Foce. Alle spese concorrevano anche la Provincia di Genova e il Genio Militare, ente particolarmente coinvolto, in quanto il Bisagno rappresentava anche un confine difensivo, essendo un naturale ostacolo all'avanzata di truppe da levante. Dopo l'annessione dei comuni limitrofi è Genova che decide riguardo al Bisagno: la prima proposta elaborata dagli uffici tecnici comunali prevedeva la deviazione del corso d'acqua, che avrebbe dovuto essere incanalato poco a monte di Borgo Incrociati per indirizzarlo verso piazza Tommaseo, recentemente costruita, per essere poi condotto al mare a sfociare sotto alla chiesa di San Pietro. In questo modo l'alveo del Bisagno sarebbe stato libero per la costruzione di molti nuovi caseggiati, mentre sarebbero rimaste le precedenti fortificazioni militari.
    Nel febbraio del 1874 viene predisposto un piano per la demolizione di queste fortificazioni, essendosi spostato il confine comunale a seguito dell'annessione dei comuni di levante, pur prevedendo di lasciare all'esercito una grande piazza d'armi sulla riva destra, a valle del ponte Pila fin sotto alle mura del Prato.
    Negli anni seguenti prende l'avvio l'elaborazione del piano regolatore (Piano delle Frazioni) che verrà approvato nel 1877, mentre qualche anno dopo (1884) inizierà la demolizione delle Fronti Basse, cioè delle fortificazioni nella sponda destra del Bisagno, che vengono sostituite da due tagliate molto profonde, una, la tagliata di Montesano, a monte della ferrovia, l'altra fra le mura del Prato, da cui prende nome, e la sponda destra del Bisagno, oltre ad un bunker sotto porta Pila, provvisto di numerose feritoie da cui si poteva sparare su chi tentasse di risalire il torrente tra le due tagliate.
    Ormai serve anche un nuovo ponte, soprattutto per collegare con una linea tramviaria, via XX Settembre con via Minerva (oggi corso Buenos Aires). Per questo nel 1892 viene progettato il ponte Bezzecca, anche in vista delle celebrazioni del quarto centenario della scoperta dell'America, per festeggiare la quale si pensa di realizzare una grande esposizione proprio sulla spianata del Bisagno.
    Intanto si provvede ad effettuare una nuova mappa catastale che sarà disponibile nel 1903.
    Nel frattempo si pensa di abbassare il Ponte Pila, che sovrastava gli argini, per cui dal 1887 in poi verranno abbassati di circa due metri e mezzo sia il ponte Pila che l'intero tracciato di via Minerva, portando la quota allo stesso livello della riva sinistra.
    A valle del nuovo ponte Bezzecca vengono realizzate arginature che, tra il 1893 e il '96, permettono di ricavare un'ampia strada sulla riva sinistra fra ponte Pila in direzione del cantiere Odero della Foce.
      Negli anni successivi si inizia a parlare di copertura del Bisagno, Il primo progetto viene presentato nel 1905 dall'ingegnere Giuseppe Cannovale che prevede di costruire otto condotti in cemento armato, perfettamente allineati, fra il ponte Pila e la foce del torrente. Il progetto prevede un'aiuola, da ricavarsi con riporto di terreno fertile sopra al condotto centrale, mentre sui condotti d'argine dovrebbero poggiare i portici dei palazzi che si prevede saranno costruiti.
    In questo momento, però, il Comune è alle prese con la vertenza in corso con il Genio Militare riguardo al pagamento dei lavori di demolizione delle Fronti Basse, che verrà risolta solo nel 1906 con un compromesso.In quell'anno perviene al Comune un secondo progetto per la copertura del Bisagno, redatto dall'ingegnere Benvenuto Pesce Maineri. E' un progetto diverso, in quanto prevede la rettifica dell'alveo dalla ferrovia al mare, con la costruzione di una strada, al di sopra,
     Per poter decidere quale sia la soluzione migliore, il Comune nomina una commissione che trascina per le lunghe i lavori, anche perché in quel momento appare molto più interessante il Piano di Albaro.
     Intanto nella spanata adiacente al torrente il meccanico Bartolo Uliana, un veneto trasferitosi a Genova, tenta nel gennaio del 1908 esperimenti di volo col suo aereo a due motori, partendo da una pista di 200 metri: i risultati non sono buoni e il meccanico attribuisce il suo insuccesso alla limitatezza della pista.
    Il 7 luglio dello stesso anno l'intera piana del Bisagno verrà invasa da una terribile alluvione.
    Poco dopo perviene al Comune un terzo progetto per la copertura del Bisagno, ad opera di tre ingegneri: Canepa, Fantoli e Inglese, che presentano il loro progetto al sindaco Gerolamo Da Passano, in cui si ipotizza la realizzazione di un canale a tre fornici.
     Ci sono nel frattempo altri progetti, come quello di Benvenuto Pesce che nel 1912 propone un viadotto ferroviario sul Bisagno, mentre Carlo Pfaltz nel 1907 aveva proposto di realizzare una Ferrovia Economica Sotterranea che attraversasse il Bisagno con un ponte analogo a quello della Ferrovia Orientale e sistemato dapprima in asse con via Tommaso Invrea, poi con via Antiochia.
    Nel 1914 si inizia a costruire nuovi caseggiati di tipo popolare sulla sponda sinistra del torrente Bisagno, a fianco del cantiere Odero. Contemporaneamente viene rimosso il conoide che ostruisce la foce del torrente, per evitare esondazioni.
      I lavori di sistemazione riprendono solo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e nel 1919 viene approvato il grandioso progetto di sistemazione del Bisagno. I lavori iniziano un paio di anni dopo, restringendo l'alveo del torrente a monte di ponte Pila per dare forma regolare a piazza Verdi e poi a piazza della Vittoria, dove verrà inaugurato il monumento ai caduti della Grande Guerra il 31 maggio 1931.
    Nel marzo del 1929 vengono iniziati i lavori per la copertura definitiva, a partire dal ponte della ferrovia. Il progetto è degli uffici comunali, guidati dagli ingegneri Parodi e Martinengo,  e la realizzazione della ditta Garbarino & Sciaccaluga che impiega circa 300 operai. A ottobre del 1929 la copertura è completata fino a ponte Pila, per cui è possibile attraversare il Bisagno con veicoli anche sull'asse di via Tommaso Invrea, mentre prima c'era solo una passerella pedonale. Nel 1931 la copertura arriva fino a un centinaio di metri a valle del ponte Bezzecca e già sono state poste le aiuole erbose.L'opera durerà sette anni e si concluderà nel 1936 con la saldatura tra le due sponde nei pressi della foce del torrente.
     
  

La Val Bisagno

L’orografia della valle varia moltissimo man mano che si risale il corso del torrente dalla foce fino alla sorgente (Passo della Scoffera). Morfologicamente il territorio della vallata può esser diviso in cinque zone: - la piana alluvionale, circondata da dolci declivi, che va dalla confluenza del rio Fereggiano alla foce; - le zone di Marassi e Quezzi, dove le pendenze dei rilievi si fanno più marcate; - Molassana, dove la valle si addolcisce e si presta agli usi agricoli (terrazzamenti) e gli insediamenti si distribuiscono su entrambi i versanti (Aggio-S.Siro, S.Eusebio, Serino, S.Cosimo, S.Martino, Fontanegli); - il tratto da Prato a Traso, con fondovalle strettissimo e pendii scoscesi; il segmento da Traso alla sorgente dove la valle è più aperta e menoripida e accoglie vari borghi (Davagna, Bargagli). Risalendo il corso del torrente, i rilievi sono costituiti da marna, roccia usata per la fabbricazione di calci idrauliche che spiega la larga presenza, in passato, di cave di calcare, di mulini e fabbriche che sfruttavano l’energia idraulica dei vicini torrenti per le attrezzature. Col materiale di scavo proveniente dagli anzidetti luoghi è stata edificata gran parte del centro storico. Le attività umane hanno inciso profondamente sull’aspetto del territorio: la piana della foce e le parti più alte dei rilievi sono da sempre state destinate alla coltivazione, quelle più ripide e meno soleggiate hanno mantenuto l’aspetto originario, con boschi soprattutto di castagno. La piana del Bisagno è la zona di Genova che presenta le testimonianze più antiche in assoluto della presenza dell’uomo: le prime tracce risalgono al periodo neolitico (V-IV millennio a.C.), nelle zone di Molassana e Traso. Gli insediamenti sono aumentati in epoca romana e sensibilmente dopo il Mille; il popolamento della valle è legato strettamente alle attività della vicina Genova, poiché la val Bisagno ne ha soddisfatto costantemente nel tempo il fabbisogno di prodotti agricoli e di manovalanza (i besagnin - contadini della val Bisagno). Tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo il popolamento sempre maggiore della valle ha cominciato ad essere regolato anche a livello amministrativo. Nel 1535 la popolazione ammontava a circa 12-13 mila abitanti (Giustiniani). Nonostante carestie, guerre ed epidemie, l’incremento della popolazione è proseguito costantemente nei secoli. Nell’Ottocento la valle è stata suddivisa in 14 comuni che a metà secolo contavano oltre 35.000 abitanti. Nel 1874  la Foce, Albaro, S.Martino, S.Fruttuoso, Marassi e Staglieno, fino ad allora comuni autonomi appartenenti alla Val Bisagno, sono diventati quartieri genovesi e nel 1926 sono stati annessi a Genova anche Molassana, Struppa e Bavari.Tra le opere realizzate prima delle varie annessioni si evidenziano: l’acquedotto, che si snodava lungo la vallata, dal Medioevo all’Ottocento ingrandito e migliorato strutturalmente (ponte sifone sul Veilino); le fortificazioni, a presidio della città e del territorio ad essa adiacente lungo tutta la bassa e media valle, caratterizzate da due cerchia di mura (quella cinquecentesca, dall’Acquasola alla Foce, e quella seicentesca, dalle mura del Prato alla Cima di Peralto); il castello di Molassana, esistente fin dal 990 (Curia di Genova); il cimitero di Staglieno, luogo degno di sepoltura per tanti poveri (circa due terzi della popolazione) i cui corpi erano solitamente gettati in grandi fosse comuni ai “mucchi dell’Acquasola” e dal ‘500 alla Foce presso il bastione della Strega (accanto all’Oratorio delle Anime Purganti) dove le esalazioni dei corpi in putrefazione appestavano l’aria circostante, gli ammassi di cadaveri offrivano immagini miserevoli, e le mareggiate trascinavano in acqua i poveri resti; il lazzaretto della Foce, la cui presenza risulta fin dal 1250, ampliato a metà ‘400, rinnovato completamente nel ‘500 e destinato a ospitare persone affette (o sospettate) da malattie contagiose. In seguito è stato utilizzato anche come bagno penale i cui detenuti erano impiegati in cantieri e in opere di pubblica utilità; i cantieri navali della Foce, di cui si ha notizia già dal ‘400 e la cui importanza è aumentata soprattutto con la produzione bellica del primo novecento (scompaiono definitivamente nel 1930). Nel tempo si sono anche persi, a causa dei vari interventi di ammodernamento: l’aspetto originario delle Fronti Basse, dove le mura si stagliavano dalla collina di Carignano a quella dello Zerbino; della porta Pila; dei ponti Pila e Bezzecca; della piana col torrente ancora scoperto, luogo di esercitazioni militari (i pompieri vi avevano i loro magazzini), di parate carnevalesche, di feste e tornei, di soste di carovane di nomadi, giocolieri, circensi, veggenti, ove nel 1892  si è tenuta l’Esposizione Colombiana e in seguito altre grandi manifestazioni. I cambiamenti di maggior rilievo sono avvenuti però a partire dagli anni ’50: il numero di abitanti della vallata è aumentato con ritmi esponenziali e conseguentemente anche lo sviluppo urbanistico.






















L'antico ponte medievale di Sant'Agata

IL CANTIERE NAVALE DELLA FOCE

Luciano Balzarini e Severino Fossati

La spianata alla foce del Bisagno, pur di ampiezza limitata, costituiva una risorsa preziosa in una città costretta tra le colline ed il mare sua principale fonte di ricchezza. L’area compresa tra l’attuale via A. Cecchi e la corsia nord di corso Marconi, e tra via C. Morin e via F. Aprile, a pianta quadrata,  fino agli inizi degli anni ’30, era circoscritta da un muro che tra l’altro, racchiudeva il cantiere navale Odero. Quest’area ultimamente apparteneva al Comune di Genova, ma in passato, dal Basso Medioevo, appartenne alla Repubblica, che l’utilizzava per vari scopi: era piazza d’armi per l’addestramento delle milizie, era area destinata alla Quarantena, a lazzaretto in caso di epidemie, ed alla costruzione di navi su incarico del Magistrato delle galee.
La menzione storicamente documentata più antica della costruzione di navi alla Foce è del 1471. In quell' anno  i Padri del Comune fanno affiggere alla Porta d’Archi, presso il ponte di Santa Zita, nel Prato della Lana ed in altri luoghi, un proclama con cui si proibisce l’asportazione di legname, ferramenta e arnesi dall’Arsenale e dal Comun de Zenoa in la Foxe.

Nel quadro di Cristoforo de Grassi che rappresenta Genova, eseguito nel 1597, che copia un quadro allora esistente del Beccari, (che il Poleggi data al 1481) si vedono, da una prospettiva alta sul mare, le piane della foce del Bisagno su cui cavalieri e fanti si stanno esercitando. Sulla sponda sinistra si notano alcune linee difficilmente interpretabili, che molti attribuiscono alle ordinate dello scafo di un galeone in costruzione. Difficilmente si tratta di una costruzione navale, perché se quelle linee rappresentassero le ordinate dello scafo, dovrebbe potersi riconoscere anche la chiglia, che deve venir impostata prima delle ordinate stesse perché esse si appoggiano sopra di essa e ne seguono la forma.  


Quadro Grassi, 1597 (particolare)
Nel 1576 ad « Fucem Bisanuus », per Marco D'Oria, si costruivano “galeoni” e vi lavorava come maestro d'ascia certo Masino. Altre navi si mettevano sullo scalo negli anni fino al 1594.
In una altra veduta di Genova del 1599 sono annotate sul Lido del Bisagno dal torrente a Capo San Vito, le seguenti località: il Lazareto, e il terreno fra il Lazzaretto e la Chiesa di San Pietro, denominato «La Foxe », un arenile che veniva assegnato per la costruzione delle navi.


Si ha documentazione di una licenza concessa al capitano Gio Paolo Marabotto, nel 1646, per la costruzione di un vascello che doveva essere armato con quattro cannoni provenienti dalla Fiandra, ci avverte che si lavorava alla Foce del Bisagno presso la Chiesa di San Pietro. Le indicazioni del sito dove si lavorava, oltre che dal documento citato, viene meglio spiegata dall'esatta indicazione topografica che risulta da un documento cartografico.






Baratta 1637


Non vanno dimenticate nella storia dei cantieri genovesi le manifatture che preparavano i materiali per i carpentieri e i maestri d'ascia. Erano le piccole industrie sparse nei paesi e nelle vallate vicino a Genova. Già nel 1454 si raccomanda, alle fabbriche di chiodi, la produzione degli stessi nella misura prescritta, al fine di non intralciare il lavoro delle maestranze navali e non mancavano nel sec. XV i fabbricanti di sartiame, e di coloro che provvedevano alberi per le navi e legno per il fasciame.
Nel 1467, sull'area della Foce esistevano le rovine di un  edificio che era stato adibito ad ospedale per gli appestati e per le malattie contagiose,  in quell'area furono costruiti gli scali e le officine di un cantiere navale e contemporaneamente in un fabbricato adiacente, ricostruito e allestito un lazzaretto, costituendo così un unico grande edificio.
Il fabbricato, nei primi anni del secolo XVI, veniva ampliato per ordine della Repubblica di Genova e per la munificenza di Ettore Vernazza e di Paolo Spinola. 
Foce Lazareto 1748  Carta rilevata da Matteo Vinzoni

Nel 1576, in seguilo al numero davvero impressionante di ammalati, nella città e nel limitrofo contado, subiva un nuovo ingrandimento sui disegni dell'architetto Giovanni Ponsello, coll'opera di Giorgio degli Agostoni e di Rocco Pellione senior, lombardi.



Il Lazzaretto in un quadro del 1830 (ca.) in cui si vede lo scarico
dell'Aqualonga che lo attraversa
Il cantiere navale della Foce e il Lazzaretto, colle altre proprietà dello Stato, passarono sotto il controllo della Repubblica democratica ligure, quando questa, il 4 giugno 1797, si sostituì all'aristocratica Repubblica di Genova, che era sorta nel 1528 per opera di Andrea Doria.
Negli anni intercorsi risultano, dai scarsi documenti pervenutici, varie costruzioni navali effettuate nel cantiere della Foce:

l     1546 nave di caratteristiche ignote
l     1576 galeone per Marco D’Oria
l     1594 altra nave
l     1599 ca. galeone costruito per capitano Gio Maria Torre
l     1646 vascello per capitano Gio Paolo Marabotto, armato con 4 cannoni
l     1666 vascello  con cannoni per scorta ai convogli
l     1750 ca. vengono costruiti tra il cantiere della Foce e quello di  Sampierdarena un vascello da 70 cannoni, (lungo 41.58 metri), uno o due da 64 cannoni, una fregata  da 36 cannoni

Non possediamo raffigurazioni pittoriche di queste navi che verosimilmente avevano  aspetti  simili a queste:

Fregata
 
Galeone
                     


                                              








           
Vascello
II Lazzaretto e il Cantiere servirono, nei 1797, in seguito alla guerra col Piemonte, per il concentramento dei prigionieri di guerra che arrecarono ai fabbricati e agli impianti seri danni, in particolar modo durante il blocco esercitato dalla flotta inglese al comando del vice ammiraglio Lord Keith nel 1800.
Subito dopo, essendo state accettate le proposte dei generali francesi Duphot e Lannes, comandanti militari di Genova e di Faipoult, ministro di Francia presso l'antica repubblica, l'edificio del Lazzaretto veniva unito alla sezione già in uso al cantiere, e vennero acquisiti alcuni orti confinanti, sulla cui area venne impiantata una fabbrica di cordami venendo a costituire  un grande cantiere ben strutturato in grado di  poter stare alla pari con quello di Tolone.
Inizia una era nuova per il Cantiere industrialmente evoluto, un periodo organizzato e ben documentato:


 Il periodo francese


L'attenzione di Napoleone per la zona della Foce s’era dichiarata subito. nel 1804 egli fece occupare dalla amministrazione della Marina francese tutto l’antico edificio del Lazzaretto,

martedì 21 aprile 2015

LA CHIESA DI SAN VITO


Daniele Cagnin


ecclesiuncula s. Viti cum domuncula, sitam in bisanne in capite Albarii,
prope et versus fucem bisannis(Gregorio De Ponte – 17 agosto 1433)


PREFAZIONE
Come accennato nella “precedente puntata” il compito che mi sono assunto, è quello di narrare le vicende storiche che hanno caratterizzato gli edifici sacri della Foce antica.
Riprendo il viaggio camminando per quei luoghi indicati, in maniera popolare, con il toponimo di Foce Alta.
Su questo “accenno di collina”, un tempo aveva sede una piccola chiesa attualmente scomparsa dal nostro sguardo (perché demolita nella seconda metà del secolo XIX), e dalla memoria storica dei professionisti accademici: lo stesso destino della chiesa dei Santi Nazario e Celso.
Per “accompagnare” il lettore in questo “secondo itinerario”, cercando di catapultarlo in una “visione del passato”, descriverò la collina così come si poteva trovare all’inizio del XV secolo: «un poggio poco lontano dalla città ma abbastanza solitario per carenza di abitanti, sovrastante alla foce del Bisagno, bene arieggiato aperto alla brezza refrigerante del sottostante mare: da lontano doveva mostrarsi “ameno e caratteristico” 1; la chiesa, in senso artistico, faceva da coronamento al colle apparendo “seduta a cavaliere” 2: vi si poteva accedere da due lati, dalla salita che partiva dalla Foce e da una via semipiana proveniente da Albaro». Ai nostri giorni la “gradevole visione” appena fornita è ridotta ad un piccolo angolo dell’attuale via San Vito.
La dedicazione della chiesa, a cui si è fatto riferimento nella descrizione sopra esposta, era san Vito (martire dell’inizio del IV secolo) e tale vi rimase fino all’inizio del XV secolo. Dopo la ristrutturazione di tutto il complesso, operato proprio nel Quattrocento, e la realizzazione di un convento la dedicazione cambia diventando Sant’Ilarione (monaco di origini orientali vissuto a cavallo tra III e IV secolo).
Come per la precedente puntata, per rendere più agevole la lettura di questa “relazione”, ho diviso il lavoro in quattro capitoli, seguendo in maniera cronologica il loro svolgimento: la chiesa di San Vito (fino al secolo XV), il convento di Sant’Ilarione (secolo XV), il “Tramonto” (dal secolo XVI al secolo XVIII) la villa Ollandini (secolo XIX).
E’ doveroso portare a conoscenza, pur se con alcuni limiti, notizie sulla “nostra Foce”: buona lettura.
1 CAPITOLO – LA CHIESA DI SAN VITO
Introduzione storica
La descrizione del territorio presentata nella prefazione, come già accennato, può essere riferita al XV secolo, ma potrebbe essere attribuita anche all’epoca della “fondazione”, quindi almeno a quattro secoli primi. Per avvalorare una tale affermazione dobbiamo prendere in “prestito” alcuni pensieri già espressi nella descrizione della chiesa dei Santi Nazario e Celso.
E’ opinione comune che fino all’inizio del XV secolo la zona della Foce era “disabitata”, l’unica costruzione esistente era un mulino citato in alcuni documenti del XII secolo. Dall’anno 9873i monaci benedettini di Santo Stefano divennero proprietari di un territorio che dalle sponde del Bisagno spaziava al rivo Vernazza, e dalla strada Romea fino al mare4(Cum decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per fines et spacia locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica usque in mare), quindi anche del “colle di san Vito”.
Pur essendo una “zona di campagna”, appare poco attendibile la definizione del Vigna5che la considera una chiesa rurale: tale definizione è da riferire all’istituzione tipica del Medioevo, finanziata o da un vescovo o da un feudatario che serviva a diffondere il culto cristiano nelle campagne ancora pagane. Quindi non è il caso di San Vito che giuridicamente si ritrovava soggetta alla vicina chiesa di San Nazario: con ogni probabilità la chiesa era concepita come “villeggiatura” 6.


La fondazione
Per analizzare al meglio le vicende storiche è fondamentale, per compiere un’accurata ricerca, consultare le fonti antiche: per ciò che concerne il periodo della “costruzione” i dati a nostra disposizione sono molto scarsi ed alcuni sono da riferire a commenti postumi.
In merito alla “fondazione” della chiesa (o cappella) di San Vito si possono formulare solamente alcune ipotesi: nel precedente paragrafo ho accennato ad un probabile periodo da fissare all’XI secolo, ma non esiste documentazione a supporto di tale tesi.
Gli “storici locali” dell’Ottocento affrontano l’argomento in modo vago: l’Alizieri7è forse il più “sbrigativo” affermando che il tempietto di quanta antichità non so dirvelo; il Remondini8, invece, fissa ad un secolo ben preciso il periodo della fondazione: come luogo sacro a S. Vito abbiamo memorie antichissime che ce lo mostrano anteriore al secolo X, tale spiegazione appare molto evasiva è poco approfondita.
Comparando i dati a disposizione con la precedente ricerca, abbiamo che il secolo XI è l’epoca in cui le chiese di pertinenza dei monaci benedettini, come Santo Stefano, San Siro e Santa Sabina, vennero restaurate: quindi fissare a quest’epoca la fondazione di San Vito non è del tutto inesatto.
Le vicende storiche di San Vito (secoli XI – XIV)
La “notizia” più antica a nostra disposizione è dell’XI secolo (ottobre 10799) ed è riportata nel Cartario Genovese10del 1870, quindi uno “studio moderno” eseguito dal Poch. Nella trascrizione dell’atto è citata la chiesa di San Vito: in loco et fundo Albario prope Ecclesia Sancti Viti (vendita della metà di un pastino11sito presso la chiesa).
Per il XII secolo sono state reperite due date: 1146 e 1193. Nella precedente “pubblicazione” 12, davo notizia che le “concessioni” fatte ai monaci benedettini sulla chiesa di San Nazario, nel secolo X, furono confermate successivamente dai vari pontefici, tutto ciò avvenne anche nel caso di San Vito: l’Alizieri13ci dice che nel 1146 con altre chiese da notarsi più tardi, cedette in balia degli abati di S. Stefano; il Remondini14, espone in maniera approfondita il suo pensiero riferendo che una chiesa o cappella vi esisteva nel 1146, e spettava ai Benedettini di S. Stefano giusta la Bolla di Celestino III Monet nos del 14 febbraio 1193 all’abate Guidone15esistente nell’Archivio Arcivescovile.
Del secolo XIII è stato consultato l’originale di un atto a rogito del notaio Salomone16(redatto in data 20 marzo 1224, per la nomina del Rettore della chiesa dei Santi Nazario e Celso), nel quale è presente come teste, il prete Anselmo della chiesa di San Vito di Albaro (presbiter Anselmi de Sancto Vitto de Albario). I tre storici citati fin ora (Alizieri, Remondini e Vigna) segnalano sempre per il secolo XIII, ma con il beneficio del dubbio, una lapide17datata 1293 della quale non sono certi fosse appartenuta alla chiesa suddetta.
Le notizie relative al secolo XIV, pur essendo limitate e “sparpagliate”, possono essere considerate attendibili perché estrapolate da documenti originali, analizziamole in successione. Per l’anno 1311 sappiamo che il rettore è un certo Prete Giovannino (o Giannino?), lo si può leggere nel Syndicatus18(7 giugno 1311): presbyter Januinus minister Sancti Victi de Albario; il Remondini19ipotizza che San Vito poteva essere succursale di San Nazario, ma risulta poco credibile. Nel 1346 il rettore è un certo Prete Bernardo, così come risulta dalle Compere del Sale20: Ecclesia Sancti Viti de Albario, Domino Presbyter Bernardi. Nel 1360, come citato dal Cambiaso21, le “tasse” spettanti alla chiesa di San Vito di Albaro erano pari a 2 soldi e 6 denari. Nell’Illustrazione del Registro Arcivescovile22è presente, per l’anno 1387, l’Atto di riparto della tassa straordinaria imposta sulle chiese e gli altri luoghi pii dell’Arcivescovato di Genova: per la chiesa in oggetto abbiamo un importo di denari 6; ancora una volta il Remondini23fornisce un suo personale giudizio su tale notizia considerando l’edificio sacro ben poca cosa e la tassa infima fra tutte le chiese della città e sobborghi

lunedì 20 aprile 2015

UN ACQUEDOTTO MARINO? OGGI POTREBBE ESSERE UTILE?

Francesco Boero

L’uso dell’acqua di mare per alcune tipologie di servizi potrebbe un giorno ritornare d’attualità e, probabilmente, qualcuno, ormai non più giovane, ricorderà suo padre, un suo parente o un altro anziano, che gli aveva parlato di un acquedotto marino funzionante nel periodo tra le due guerre mondiali e, con molte difficoltà, nel periodo postbellico fino alla fine degli anni ’70.
In effetti, le prolungate siccità degli anni 1922 e 23 avevano spinto l’Amministrazione del Municipio di Genova a prendere in considerazione (Deliberazione del C.C. n. 53 del 8 maggio 1922 e Atto del Commissario Prefettizio n. 112 del 3 giugno 1924), in attesa della realizzazione dell’acquedotto del Val Noci, l’esecuzione (primi in Italia) del già progettato Acquedotto Marino per i servizi pubblici cittadini.
A quel tempo l’utilizzo dell’acqua di mare per servizi alla cittadinanza, oltre che a Genova (per mezzo degli impianti di pompaggio delle Batterie del Vagno e Strega e dei carri botte per l’innaffiamento), era già stato adottato con soddisfacente successo da diverse città inglesi, tra cui Liverpool, e francesi, tra cui Le Havre.




A favorire l’utilizzo di tale risorsa hanno concorso, in particolare negli anni Venti e Trenta:

mercoledì 15 aprile 2015

LE "CICOGNE" NEGLI ORTI DELLA FOCE


 Giorgio Olivari


Le cicogne erano semplici congegni, ormai in disuso, per sollevare l’acqua dai pozzi; nella zona della Foce, ricca di orti, erano molto numerose, al servizio dei bisagnini.
         Ora sono scomparse in tutta Europa, sostituite dapprima dal rinvio a carrucola, meno faticoso, e infine dalle pompe elettriche. Hanno una origine antichissima, e sono ancora molto diffuse nei paesi di economia meno sviluppata, come in Africa, dove sono chiamate Shaduf, nel Bangladesh, Paecottah, in Sudamerica,  Bimbaletes.
La Cicogna consiste in un sostegno fisso, in legno o muratura, su cui bascula una trave di legno appesantita ad un estremo per tenerla inclinata; l’altro estremo è in corrispondenza della bocca del pozzo, e vi è appesa una corda, o un altro palo di legno, che porta il secchio. L’operatore  spinge il secchio nel pozzo  tirando  la corda  verso  il  basso;  quando  il  secchio  è  pieno,  questi  risale  per effetto  del contrappeso.  Chi ha assistito, in passato, alla manovra riferisce che sull’orlo del pozzo era sistemata una grossa pietra sporgente su cui si poneva l’operatore, per essere più vicino al centro del pozzo e faticare meno.
Se il secchio era appeso ad  un gancio aperto, occorreva  una certa  abilità  per impedire che, quando il secchio toccava l’acqua, si sganciasse e venisse perduto. Se invece il secchio era fissato alla corda, questo pericolo era evitato.


La cicogna doppia della foto, ancora esistente a Chiavari in via Brizzolara, è stata  recentemente restaurata (anche con il contributo della Biblioteca Servitana di Genova, che ha fornito ampia documentazione storica).  E’ un esempio indicativo della tecnica di costruzione ligure: il supporto è in muratura; la corda è sostituita da un palo di legno, collegato al bilico con un tratto di catena, e il secchio, di ferro, è anch’esso fissato al palo con un altro tratto di catena. E’ probabile che servisse per irrigare un orto; in questo caso il secchio può essere fisso, da scaricare vicino al pozzo in un punto da cui si dipartono i canaletti di irrigazione dell’orto.

giovedì 9 aprile 2015

IL NAVIGATORE

   
Maria Cristina Ferraro

   Il navigatore non è solo quello strumento che ti permette di raggiungere la meta, magari facendoti fare mille giri inutili, il Navigatore, per noi della Foce, è quella grande statua di marmo che si trova al limite della copertura del Bisagno, dove è stata collocata nell’occasione della visita a Genova di Benito Mussolini nel maggio del 1938, sedicesimo anno dell’era fascista.
   Il viale Brigata Bisagno era stato costruito tra il 1929 e il 1936, con la supervisione dell’architetto Marcello Piacentini che aveva appena progettato Piazza della Vittoria,  e allo scultore Antonio Maria Morera era stata commissionata una statua.
   Antonio Maria Morera era al tempo un artista assai noto, sia come pittore che come scultore: la sua scultura si inquadrava nell’ambito delle correnti artistiche del “Novecento” per una tecnica attenta e precisa con intonazioni veristiche e contemporaneamente per stilizzazioni accademiche.
   “E’ uno dei nostri migliori scultori contemporanei, è un geniale creatore e il suo realismo non è un fine, ma il movente e l’espressione pura dei suoi sentimenti e delle sue idee….Antonio Morera è uno scultore pieno di quella genialità che si avviva nel solco della gloriosa tradizione dell’arte mediterranea”[1].
   Dunque Morera pensa ad una statua e ne fa un bozzetto in gesso: bozzetto che possiamo vedere in una fotografia dello studio dell’artista.   Nella foto il Navigatore appare nella sua splendida nudità che però non fu gradita dai committenti che la vollero celata da una sorta di cintura di castità abbastanza ridicola.
   Intorno alla figura possente un semicerchio con la scritta “Vivere non necesse, navigare necesse est, parole queste che Plutarco fa pronunciare a Pompeo e che dovevano servire a motivare i soldati che, durante una tempesta, non volevano affrontare il mare per trasportare a Roma un carico di grano africano.   Di fronte alla necessità che Roma aveva del grano, doveva passare in second’ordine la stessa necessità di salvaguardare la propria vita.   Queste parole divennero poi il motto di varie organizzazioni marinare, furono anche il titolo di un articolo di Mussolini pubblicato sul "Popolo d'Italia" il 1° gennaio 1920 e anche Gabriele D’Annunzio,citandole, ne ha fatto il simbolo dell’arditismo nazionalistico.
   “La statua del Navigatore è una forte e serena raffigurazione dell’uomo ligure di mare, rude, tenace e semplice che,armato di un pesante remo, scruta l’orizzonte lontano, a guardia ideale del suo porto e della sua città.   La prepotente anatomia muscolare del torace e dei bicipiti, delineate e modellate con forza, ma senza esagerazioni, è chiaramente allusiva alla potente capacità operativa e manovriera dei pesanti antichi remi lignei, armati di pesante cuoio”.[2]
   Ai lati del Navigatore facevano bella mostra i fasci littori cui successivamente furono tolte le scuri e fu tolta anche dal basamento la scritta “ Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro”.  
   Caro Navigatore onestamente ti dirò che non da tutti sei amato: hai corso un grosso rischio
quando ti hanno spostato per fare i lavori sul Bisagno, poi sei ritornato anche se da varie parti si auspicava un diverso assetto per la strada e la tua sistemazione.
   Tieni duro, Navigatore!  E mentre guardi il mare dà un’occhiata anche a noi abitanti della Foce che ti siamo affezionati e che vediamo in te raffigurata la spavalderia, il coraggio, l’ardimento che, ahimè, ora sembra mancarci.






[1] Cfr. Alfredo Roncallo, A. M. Morera, Comed Edizioni d’arte, Milano, 1983
[2]   Vitaliano Rocchiero, Antonio Maria Morera Statuario, Medaglista, Cattedrante, in "Arte e Stampa", a. XXXIV, gennaio 1986, p.13

lunedì 6 aprile 2015

UNA FAMIGLIA DELL'ANTICA FOCE

Matilde Arduino e Giorgio Olivari

   La famiglia della Foce che qui presentiamo è la nostra. Essa ha seguito un percorso comune a molte famiglie italiane: la graduale ascesa dal basso proletariato ad una condizione più dignitosa nel lavoro e nella cultura.
   In ricerche di questo genere, i ricordi dei nonni sono una fonte preziosa, ma riguardano solo vicende relativamente recenti. Per guardare indietro nel passato i dati anagrafici sono disponibili a partire dall'Unità d'Italia (1860); più indietro ancora, è necessario rivolgersi alle parrocchie, consultando i registri dei battesimi e dei matrimoni, nonché i cosiddetti "censimenti" ovvero "registri delle anime". Sono elenchi, un po' confusi e con molti errori, compilati in occasione delle benedizioni delle case, che riportano i nomi dei parrocchiani e dei figli
   Sfogliando il registro delle anime della parrocchia di Albaro si può ritenere che gli Arduino siano comparsi in Albaro tra il 1600 e il 1700; provenivano probabilmente da Genova,  dove questo cognome era frequente (è citato nel '500 un Arduino importatore di arazzi dalle Fiandre) o dalla riviera di Ponente, dove pure vi erano molti Arduino, specie ad Albenga.  Da notare che oggi questo cognome a Genova è quasi scomparso: nell'elenco del telefono se ne contano appena 27, mentre nel censimento del 1871, con una popolazione di gran lunga inferiore, occupano diverse pagine. Sono molto frequenti gli omonimi: i nomi Stefano, Domenico, Antonio ricorrono in continuazione; probabilmente le diverse famiglie derivano da un ceppo unico e si sono tramandate i nomi degli antenati.

Il primo documento sulla nostra famiglia che abbiamo rintracciato è questo:

giovedì 2 aprile 2015

L'INCAGLIAMENTO DEL PIROSCAFO "MARIA MATILDE" DINNANZI A CORSO ITALIA


Francesco Boero




Da IL LAVORO di venerdì 23 aprile 1926

L’incagliamento del piroscafo “Maria Matilde” dinnanzi a Corso Italia

Il mare tempestoso, le raffiche di libeccio ed un grave guasto al timone cambiano rotta alla nave appena uscita dal porto e la mandano ad incagliarsi sulle scogliere della batteria di Vagno.            
Il faticosissimo e pericoloso salvataggio dei 31 uomini di equipaggio. Magnifici atti di valore. Quattro feriti all’Ospedale ed una trentina di contusi ed assiderati
Il tempo disastroso di questi giorni, con la violentissima libecciata di mercoledì, ha provocato un grave disastro marittimo che fortunatamente non ha avuto conseguenze letali per gli uomini di equipaggio del piroscafo sinistrato.                                                                        
Nella mattinata di mercoledì alle ore 9.30, il piroscafo “Maria Matilde” della società Anonima Vapori e Carboni (sede in Genova, piazza Grimaldi 1), partiva dal nostro porto diretto a Gibilterra per ricevere ordini. Non appena il vapore ebbe superato l’avamporto e fu entrato nel mare libero, la violenza delle onde lo fece lavorare subito faticosamente, poiché, vuoto com’era, prese a rullare e a beccheggiare con gran disordine. Ad un certo punto il “Maria Matilde”, che per superare le onde altissime, andava avanti a tutto vapore, prese a non obbedire più al timone che doveva farlo virare a destra onde far rotta verso