lunedì 17 novembre 2014

L'ISTITUTO MARAGLIANO

                                                                                                                               Edoardo Maragliano

     
    L’Istituto Maragliano per lo studio della Tubercolosi e delle Malattie Infettive è nato in Genova sullo scorcio del 1900 come filiazione dell’Istituto di Clinica Medica dell’Università di Genova diretta da Edoardo Maragliano.
    È appunto nei laboratori della Clinica Medica che si diede inizio nel 1889 a quel complesso di studi sperimentali sulla tubercolosi che sfociò in una serie di pubblicazioni che segnarono un periodo nuovo nella Storia della Medicina.
     Ma esigenze sempre nuove nell’ambito delle ricerche sulla tubercolosi avevano reso insufficiente lo spazio dei laboratori della Clinica Medica per cui fu necessario avere a disposizione un edificio appositamente dedicato.
    Si decise pertanto di porre mano alla costruzione d’un edificio nella Piazza del Popolo il cui toponimo oggi non esiste più. Infatti il nuovo assetto urbanistico cancellò completamente la vecchia Piazza del Popolo al cui posto oggi v’è Via Cecchi (vedi Figura 2).
    Questo edificio fu la prima sede dell’Istituto Maragliano: esso venne ovviamente strutturato in base agli scopi per cui doveva servire: misurava circa 20 metri di lato ed aveva due piani (vedi Figura 1). Metà del piano terreno, con due accessi indipendenti, era occupato dalle scuderie che contenevano normalmente una trentina di grossi animali (cavalli, vaccine, asini) in box separati.
    La stalla per i vitelli che fornivano il vaccino era completamente isolata ed aveva un accesso speciale. L’altra metà del pianterreno era occupata, parte dall’Ufficio di Amministrazione, parte dalla rimessa, magazzini, fienile e parte da una grande sala in cui venivano praticate le operazioni immunizzanti ed i salassi.


      Al piano superiore, un ampio corridoio centrale dava accesso e rendeva indipendenti l’uno dall’altro i seguenti Laboratori:
A sinistra:   1) Laboratorio speciale per la Tubercolosi e per il siero antitubercolare, camera di preparazione delle colture, camera adibita al grande termostato.
         2) Laboratorio per le sterilizzazioni (autoclave, stufe di Koch, ecc.) e per la preparazione dei materiali di coltura (brodo, agar, ecc.).
          3) Sala per la confezione definitiva dei prodotti dell’Istituto e per le spedizioni.
          4) Laboratorio per la conservazione e confezione dei sieri.
          5) Ufficio della Direzione.
          6) Laboratorio per la preparazione della Emoantitossina Tubercolare.
          7) Laboratorio per la preparazione del Siero Antidifterico.
          8) Laboratorio per la preparazione del Vaccino Jenneriano.
A destra:     9) Laboratorio per prodotti Opoterapici e Soluzioni medicate.
        10) Laboratorio generale per i diversi studi eseguiti dai frequentatori dell’Istituto a scopo didattico, sotto la direzione del Prof. Maragliano e Servizio per le ricerche diagnostiche.
        11) Laboratorio per la produzione del Siero Antistreptococcico.
         12) Sala d’operazioni di controllo dei vari prodotti sugli animali, necroscopie, ecc.
         13) Deposito degli animali di laboratorio.

da  Annali dell’Istituto Maragliano Vol. I, Anno I – Maggio 1904.
   Editore Istituto per le Malattie Infettive, Piazza del Popolo, 11 - Genova




figura 1




figura 2

L'ORATORIO DELLE ANIME PURGANTI

Rosa Elisa Giangoia


Pasquale Domenico Cambiaso (olio su cartoncino - collezione privata)


      Un altro sinistro edificio si ergeva, verso ponente, sulla sponda destra del Bisagno, nel breve tratto pianeggiate, ora sottostante corso Aurelio Saffi, il cui ricordo è testimoniato da una targa posta all’inizio della strada e da un quadro di Pasquale Domenico Cambiaso. Qui, dal 1602, vi era l’Oratorio delle Anime Purganti, sede dell’omonima Confraternita, presso cui era il Cimitero dei Poveri (abbattuto dopo la costruzione di Staglieno): quest’ultimo era costituito da grandi fosse comuni, chiuse da grate a larghe maglie, in cui, durante le violente mareggiate, l’acqua poteva entrare liberamente facendo scempio dei poveri resti.     Ai piedi delle ripide mura del Seicento vi era una spiaggia dove venivano stese le tele dei tessitori dei tessuti di Borgo Pila e le lenzuola lavate dalla lavandaie nel Bisagno. Soprattutto per la prima ragione il luogo prese il nome di “prato della lana”.
     L'Oratorio delle Anime Purganti, edificato nel 1602, divenne la sede favorita di leggende e storie popolari a tinte fosche, forse per la presenza del vicino cimitero e della fossa comune che a detta di alcuni, mostrava spesso un rigurgito di corpi ammassati alla bella e meglio sotto il cielo, spettacolo questo che dovette aver ispirato oltre che il comprensibile orrore dei passanti, numerose e favolose storie di fantasmi. Anche Charles Dickens durante sua visita alla Foce favoleggiò (forse un po’ troppo) delle lugubri leggende che avvolgevano l'Oratorio. Il Morando, storico dell'epoca, così ci descrive lo scempio delle fosse comuni: ...."Le salme, abbandonate com'erano in immani fosse comuni non fognate da smaltatoi, appena difese da inferriate a larghe grate... lasciavano intravedere, qua e là, tutto l'orrore di una innominabile dissoluzione... più volte nell'imperversare delle mareggiate quel pestifero carnaio rimase in gran parte scoperto, ed il mare ritirandosi in appresso ne trascinava brani miserandi di membra ed ossame". Ma forse lo scaturire delle leggende deve di più - come afferma lo stesso Morando - "al pellegrinaggio che l'Oratorio delle Anime il 2 di Novembre ospitava dalle prime ore del mattino fino a notte fonda".  Per il suffragio delle anime dei defunti, si diceva, "ma queste pratiche - sottolinea il Morando - nascevano più dalle contaminazioni da queste cerimonie religiose con  quelle, (più pagane) inerenti al culto delle tombe". "Sorsero così pratiche superstiziose, come quella di recarsi colà (dalla fossa comune) prima di mezzanotte a scopo di ricavarne i numeri del lotto". Una presenza costante alla Foce fino alla prima metà del secolo scorso era quella dei pescatori, che formavano assieme alle loro famiglie, un piccolo borgo di modeste case, aggrappato alla collina.
      Si dice che, nottetempo, questi luoghi, fossero frequentati da giocatori del lotto, speranzosi di ricevere qualche buona “indicazione” dalle anime dei defunti.


Pasquale Domenico Cambiaso





L’Oratorio della Foce

Daniele Cagnin
INTRODUZIONE

            Sulla sponda destra del Bisagno, su un lembo di terra nei pressi dello sbocco al mare del torrente, addossato alla massa rocciosa delle mura seicentesche che difendevano Genova dal mare (attualmente il muraglione di Corso Aurelio Saffi) nel punto detto Capo della Strega o di Carignano, sorgeva un Oratorio dedicato alle Stimmate di San Francesco d’Assisi1, detto comunemente delle Anime della Foce.
            Per oratorio è da intendersi un edificio sacro di dimensioni minori rispetto alle comuni chiese, e normalmente costituito da un vano quadrangolare fornito di un solo altare: può essere compreso in altro edificio cultuale o presentarsi come un organismo autonomo. Se ne ha “traccia” fin dall’età Paleocristiana: erano da intendersi come “ambienti” solitari di preghiera o come cappelle private per le alte cariche ecclesiastiche o laiche. Ebbero grande diffusione e importanza nel periodo della Controriforma quando furono disciplinati dalla regola di san Filippo Neri, nella quale era prevista una netta distinzione tra oratorio e chiesa, “determinando” un ingresso indipendente dall’esterno e con facciata propria.
Nella nostra città esisteva un cospicuo numero di queste ”costruzioni”: era uno spazio non solo devozionale, ma anche di “incontri conviviali e ricreativi”, in particolare per il mondo paesano le feste patronali costituivano uno dei pochi momenti distensivi, soprattutto durante lo svolgimento delle processioni.
Per “governare” questi luoghi furono istituite delle Confraternite (nella nostra città chiamate Casacce derivate dalle domus disciplinatorum del XIII secolo): esse svolgevano una funzione sociale, offrendo supporti alla vita della comunità. E’ nota, infatti, l’incidenza culturale, sociale ed economica di tali sodalizi sulla collettività ligure: molti di essi si occupavano delle visite ai malati, dell’accompagnamento ai funerali, delle messe in suffragio dei defunti.
L’Oratorio della Foce era situato nei pressi del “cimitero dei poveri”2(esistente fin dal 1536, quando fu trasferito dalla zona dell’Acquasola3nei pressi del monastero di Santa Marta) e per tale vicinanza si alimentarono, nel tempo, “sinistri racconti”4, soprattutto nel periodo liturgico della Commemorazione dei Defunti. L’oratorio era “dipendente” dalla parrocchia di Santa Maria e dei Diecimila Crocefissi di Borgo Incrociati.
CENNI STORICI
La costruzione dell’Oratorio è fissata, dalle fonti, al 1602.
La data menzionata è riportata dal Novella5, indicando che ciò avvenne grazie all’opera del Venerabile Bartolomeo da Saluzzo (o da Salutio), coadiuvato da Giovan Battista Senarega (deceduto nel 16096) e da Giovan Battista Castello. Consultando la biografia7di Bartolomeo Cambi esistono due periodi in cui lo troviamo presente nella nostra città, vale a dire alcuni mesi del 1593 e il periodo dell’Avvento del 1602 (per predicare nella Cattedrale): il Novella riporta un diverso periodo in cui il frate francescano “insegnava” nella chiesa Metropolitana di Genova, vale a dire la Quaresima dell’anno 1602.
In base agli elementi a nostra disposizione è plausibile pensare che la costruzione dell’oratorio possa essere collocata in un arco di tempo che va dal 1593 al 1602.
Del XVII secolo l’unica notizia a nostra disposizione riguarda il “bombardamento francese” del 1684 nel quale l’edificio subì alcuni danni strutturali e probabilmente la perdita dell’archivio.
Nel 1736, come si può leggere negli atti di Domenico Piaggio8, si decise di ampliare la costruzione: Bartolomeo Bellagamba e Bartolomeo Bobbio ottennero dalle monache di Santa Marta (rappresentate dal procuratore Alessandro Maria Montesoro9), un piccolo appezzamento di terreno che fu messo a disposizione per la realizzazione della sacrestia; in pagamento fu pattuita, per ogni anno, una candela di cera bianca lavorata, del peso di tre libbre e mezzo.
Le condizioni di manutenzione, nel 1751, non dovevano essere ottimali: il Magistrato delle Fortificazioni ordinò un progetto (con l’aiuto di Pietro Francesco Franzoni) per fabricare di novo un Oratorio, o sia Capella vicino alle Sepolture o sia Cimitero de Cadaveri10[…] ultimamente distrutto.
Esiste un ulteriore documento, datato 12 dicembre 1767 nel quale si dice che l’Oratorio necessita d’essere ristorato11. Durante il periodo 1800 – 1802 si effettuarono lavori di ristrutturazione all’edificio (per un importo di Lire 1.500) e al Sancta Sanctorum (lavoro che fu contestato al Maestro Capo d’Opra Simone Castagneto), fu anche costruito un molo necessario per mettere al riparo dalle acque del Bisagno il “trasporto de’ cadaveri”.
Nel 1811 l’Oratorio fu chiuso dalle Leggi di Soppressione con il decreto del Prefetto Burdon, fu riaperto nel 1814: in un documento del 17 maggio 1814 sono elencati alcuni obblighi che i confratelli erano tenuti a rispettare.
A seguito dell’apertura del cimitero monumentale di Staglieno (1867), la tumulazione in quello della Foce fu abbandonata (il cancello fu “chiuso definitivamente” nel 1875) e l’oratorio non ebbe più i numerosi benefattori del passato: le messe giornaliere, come era nel periodo 1824 – 1838, diminuirono sensibilmente.
L’oratorio fu ulteriormente chiuso, per mala amministrazione, il 16 gennaio 1889 con ordine governativo e su proposta del Commissario Regio (Commendatore Cravero): il 4 aprile successivo fu riaperto nominando cappellano un certo Antonio Soldà12.
La demolizione delle due costruzioni avvenne nel mese di aprile del 1891 per i lavori di riassetto urbanistico della zona. In un documento del 28 agosto 1893, presente all’Archivio Storico della Curia, si fa cenno al 18 novembre 1890: le celebrazioni delle Sante Messe in suffragio continuarono nella chiesa di Santa Zita.
Ai nostri giorni la memoria di queste costruzioni è ricordata in una lapide.
IL “TITOLO” NELLE FONTI STORICHE
Relativamente al XVII secolo non abbiamo a disposizione nessuna documentazione per conoscere quale era la dedicazione originale dell’Oratorio della Foce: possiamo azzardare delle ipotesi comparando alcuni testi critici dei secoli precedenti.
Come già accennato l’oratorio fu costruito nei pressi dell’antico cimitero cittadino: in un saggio13dell’Ottocento, relativo alle vite di frati cappuccini illustri, si evince che fra Carlo da Compiano (intorno al 1626) si adoperò nella redazione dei capitoli degli Oratorij de’ Morti.
La fonte più antica nella quale “compare”il titolo dell’oratorio è un documento14, datato 23 ottobre 1751, nel quale è nominato come Cappella delle Sepolture, per le Anime Purganti, quindi in “linea” con quanto affermato nel paragrafo precedente. Per avvalorare ulteriormente le notizie fornite riporto quanto riferito in uno studio del 1965 di Edoardo Grendi15: l’iniziativa per la fondazione delle compagnie delle Anime Purganti fu invece nel 1626 di un padre cappuccino, Carlo da Compiano.
Successivamente, in un decreto del Magistrato dell’Interno (15 giugno 180316), la denominazione è Casa di San Francesco della Crosa, confermato in un Ristretto17datato 20 ottobre 1802.
In un altro documento dell’Ottocento18abbiamo il titolo di Oratorio delle Anime della Foce, la stessa dedicazione è presente nella pubblicazione19del 1840 di Goffredo Casalis.
Tenendo in considerazione quanto affermato e consultando un atto20notarile datato 12 luglio 1801, la “dedicazione ufficiale”, confermata anche dagli scritti dell’Alizieri21, era quella riportata nell’introduzione: Stimmate di San Francesco.
LE CONFRATERNITE
La diversità riscontrata nei “titoli”è presente anche nel nome delle Confraternite che ufficiavano l’oratorio: le uniche Confraternite “certificate” nei documenti dell’Ottocento sono quelle dei Settantadue Discepoli22e delle Anime Purganti (forse aggregata alla Casaccia di San Bernardo). Nel 1803 i confratelli delle due “associazioni” erano in numero di 654 affiliati più le consorelle: questo “favore popolare” si concretizzava in un grande numero di elemosine23destinate al suffragio dei defunti; giornalmente venivano celebrate più di venti messe.
Sono da citare altre confraternite: delle Stimmate24, forse da attribuire ai primi del Seicento e comunque da mettere in relazione con la dedicazione dell’Oratorio; di San Francesco d’Assisi o della Crosa: da quanto affermato in un libro del secolo scorso apprendiamo che la prima memoria risalirebbe al 1602 mentre i capitoli sarebbero stati approvati solo nel 1779, è indicata come casaccia25nell’accezione più tarda assunta dal termine. Sempre da questa pubblicazione apprendiamo un ulteriore confraternita della Morte: non è documentata e appare come una “confusione” fra il nome dell’Oratorio e quello della Confraternita.
LE OPERE D’ARTE
Da una brevissima descrizione redatta nel 1840, apprendiamo che l’oratorio era ornato assai bene, ma basso d’aria26. Del Novecento abbiamo due “rapide esposizioni”: di inizio secolo è quella del Cervetto bel illuminato ed arioso27, dal Morando (1857 – 1935), altresì, veniamo a conoscenza che si presentava con forma a piramide tronca con modesto cancello28.
L’unico “studioso” che fornisce la descrizione delle opere d’arte che erano presenti nell’oratorio, è il Novella: come già accennato in altre circostanze, le citazioni del “diligente illetterato genovese” sono poco approfondite, e quindi l’elenco che fornirò non è può essere considerato attendibile. Nella facciata era presente un affresco con le Anime Purganti: difficilmente il dipinto può essere attribuito a Giulio Ballino (veneziano), in quanto deceduto intorno al 1592, quindi prima della costruzione dell’edificio.
Nella volta interna furono dipinte tre storie bibliche eseguite da Giuseppe Paganelli (1749 – 1822): Maria in atto di intercedere per le Anime Purganti, la visione d’Ezechiele e la resurrezione del figlio della vedova di Naim; per questi tre affreschi non è possibile stabilire se erano presenti prima della chiusura del 1811, oppure realizzati dopo il 1814, o eventualmente restaurati.
Nel tempo furono realizzati cinque altari soprattutto per le numerose celebrazioni: sul maggiore era posto un quadro con Nostra Signora del Rosario, di Bernardo Castello (1557 – 1629); nei quattro altari minori: San Francesco d’Assisi, eseguito nel 1820 da Giuseppe Passano (1786 – 1849); Santa Caterina da Genova, di Giovan Battista Delle Piane29; La decollazione di San Giovanni Battista, di Rolando Marchelli (1665 – 1751) e l’Annunziata di Alfonso Spinga (secolo XVIII, napoletano): quest’ultimo quadro, prima del 1797, era situato nella chiesa di Santa Marta.
Consultando il Soprani30apprendiamo quanto segue: Bernardo Castello […] San Francesco, che honora l’Oratorio d’esso santo. Il Novella ci riferisce che a seguito delle soppressioni del 1811, un quadro di Bernardo Castello raffigurante San Francesco, fu trasferito nella chiesa parrocchiale di Borgo Incrociati: Giuliana Biavati, curatrice nel 2003 per il manoscritto del Novella concernente gli oratori genovesi, afferma che in Borgo Incrociati esiste un quadro di San Francesco ma non è attribuibile a Bernardo Castello.




NOTE
1          Un ulteriore oratorio dedicato alle stimmate di San Francesco era presente fin dal 1619 nella zona di Campi.
2          Questa denominazione è stata tratta da Paolo Novella il quale aggiunge che tale cimitero serviva, in particolar modo, per i deceduti dell’Ospedale di Pammatone e per molte delle Parrocchie dell’attuale centro storico cittadino (Santa Maria di Castello, Santissimo Salvatore, Santi Cosma e Damiano, San Donato, San Marco al Molo, San Giorgio, San Lorenzo, Sant’Andrea e Nostra Signora dei Servi, Santo Stefano e San Vincenzo).
3          Tale cimitero era detto Mucchi dell’Acquasola (in genovese muggi).
4          FRANCESCO ERNESTO MORANDO, Aneddoti Genovesi, Roma 1932, pp. 276 – 280.
5          PAOLO NOVELLA, Gli Oratori di Genova – un manoscritto del 1912, Genova 2003, p. 82.
6          Dello stesso anno è una lettera, rivolta ai confratelli Bartolomeo da Salutio e datata 22 ottobre citata anche dal Giscardi (Origine delle Chiese, Monasteri e luoghi pii della città e riviere di Genova, ms. sec. XVII, cc. 613 – 614).
7          ENCICLOPEDIA TRECCANI: Bartolomeo Cambi nacque a Socana nel 1558, morì a Roma nel 1617. Del 1613 è un libro a stampa dal titolo Compagnia dell’Amore fondata dal Molto Reverendo fra Bartolomeo da Salutio.
8          DOMENICO PIAGGIO, filza 5, 1736 – 1737 (A.S.G., Notai Antichi, filza – n° generale d’ordine 10879 Bis, atto n° 11: Convegno, n° 40: Facoltà, n° 43: Locatione).
9          CF.
10        A.S.C.A., Scatola Foce, N° 1119 (ex N° 39).
11         Idem.
12        Sono stati recuperati i dati dei superiori dell’Oratorio nel periodo 1886 – 1889:
- dal 28 marzo 1886 al 7 luglio 1887 Pellegrino Borghetti;
- dall’8 luglio al 16 gennaio 1889 Raffaele Viviani.
13        PASQUALE DA MAROLA, Saggio della vita de’ Cappuccini Liguri illustri in virtù, dottrina e santità, 1822, p. 77.
14        A.S.C.A., Scatola Foce, documento del 1751.
15        EDOARDO GRENDI, Morfologia e dinamica della vita associativa urbana. Le confraternite a Genova fra i secoli XVI e XVII, in Atti Società Ligure di Storia Patria – Vol. LXXXIX, 1965, p. 255.
16        A.S.G., Repubblica Ligure, N° 105/I.
17        A.S.G., Repubblica Ligure, N° 203.
18        A.S.C.A., Scatola Foce, Relazione sull’andamento dell’amministrazione dal 1 settembre 1878 al 31 dicembre 1886.
19        GOFFREDO CASALIS, Dizionario Geografico Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino 1840, p. 550.
20        LAZZARO FINOLLO, Cessione del 12 luglio 1801, filza 1, atto nº 110 (A.S.G., Notai Antichi, n° generale d’ordine 14602). Confermato in un atto del 27 febbraio 1788 a rogito del notaio Carlo Lagomarsino (A.S.G., Notai Antichi, filza 2, atto n° 59, n° generale d’ordine 12195), nel quale si parla di Oratorio delle Stimmate.
21        FEDERICO ALIZIERI, Guida Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1875, p. 572.
22        Da intendersi come i primi seguaci di Gesù Cristo.
23        Due “cassette delle elemosine” (bussole) erano posizionate una sul Ponte della Pila e l’altra in vico San Cristoforo.
24        Se ne ha memoria, nel 1502, nella chiesa di Gesù e Maria (?).
25        L’unica casaccia, presente nel quartiere della Foce, intesa come associazione risalente ad una archetipo domus disciplinatorum, è quella di Santa Zita.
26        G. CASALIS, Dizionario Geografico, p. 524.
Da una mappa del XVIII secolo, Tipo circa le sepolture della Foce (A.S.G., Fondo Cartografico, GENOVA 83), possiamo rilevare le misure dell’edificio: lunghezza circa 9 metri, larghezza circa 3 metri.
27        LUIGI AUGUSTO CERVETTO, Oratorio di S. Maria, S. Bernardo SS. Re Magi e Anime Purganti della Foce, Genova 1907, p. 21.
28        F. E. MORANDO, Aneddoti, p. 293.
29        Secondo il Novella (vedi nota 5) l’autore è detto il Mulinaretto: l’unico pittore con questo pseudonimo fu Giovanni Maria Dalle Piane (1660 – 1745).
30        RAFFALE SOPRANI, Le vite de’ pittori scoltori et architetti, Genova 1624, p. 117.

BIBLIOGRAFIA
ALIZIERI FEDERICO, “Guida Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1875.
CAPINI ANITA GINELLA, LUCCHINI ARONICA ENRICA, BUSCAGLIA MARIA GIULIANA, “Immagini di Vita tra terra e mare – la Foce in età moderna e contemporanea (1500 – 1900)”, Genova 1973.
CASALIS GOFFREDO, “Dizionario Geografico Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna”, Torino 1840 (anche in formato digitalizzato)
CERVETTO LUIGI AUGUSTO, “Oratorio di S. Maria, S. Bernardo SS. Re Magi e Anime Purganti della Foce”, Genova 1907.
DA MAROLA PASQUALE, “Saggio della vita de’ Cappuccini Liguri illustri in virtù, dottrina e santità”, 1822 (in formato digitalizzato).
DE SIMONI LAZZARO, “Le Chiese di Genova”, Genova 1948.
GISCARDI GIACOMO, “Origine delle Chiese, Monasteri e luoghi pii della città e riviere di Genova”,
manoscritto secolo XVIII. (in formato digitalizzato)
GRENDI EDOARDO, “Morfologia e dinamica della vita associativa urbana. Le confraternite a Genova fra i secoli XVI e XVII, in Atti Società Ligure di Storia Patria”, Vol. LXXXIX, 1965.
MORANDO FRANCESCO ERNESTO, “Aneddoti Genovesi”, Roma 1932.
NOVELLA PAOLO, “Gli Oratori di Genova – un manoscritto del 1912”, Genova 2003.
NOVELLA PAOLO, “Settimana Religiosa”, Anni: 1932.
OTTONELLI GIULIO, “Vedute e descrizioni della vecchia Genova”, Genova 1973.
PODESTA’ FRANCESCO, “Escursioni archeologiche in Bisagno”, Genova 1879.

SOPRANI RAFFALE, “Le vite de’ pittori scoltori et architetti”, Genova 1624.


A questo oratorio è dedicato un capitolo del volume di Paolo Novella, Gli oratori di Genova - un manoscritto del 1912, a cura di Giuliana Biavati, Compagnia dei Librai, Genova 2003, pp. 80-86.

Oratorio di S. Maria, S. Bernardo SS. Re Magi e Anime Purganti

1 - Cimitero e Oratorio alla Foce

Tra i genovesi non nati ieri nessuno ha certamente dimenticato quel Cimitero e quel devoto Oratorio cosidetti delle Anime della Foce, che sorgeano in luogo solitario tra la spiaggia del mare e la foce del Bisagno, ai pié delle fortificazioni che difendono Genova dalla parte del mare.
Son trascorsi oltre venti anni da che il cimitero e la devota chiesuola unita sparvero sotto il piccone demolitore e le mine per dar luogo alla grandiosa strada di circonvallazione a mare. E di quel luogo ove i buoni genovesi recavansi a pregare la pace eterna per i loro defunti or non rimane più alcuna traccia. Solo una iscrizione scolpita sul marmo ne segna il luogo al passeggero [1].

Il cimitero scomparso serviva per i morti poveri della città, specialmente per quelli deceduti nello Spedale di Pammatone e delle parrocchie di S.M. di Castello, SS. Salvatore, SS. Cosma e Damiano, S. Donato, S. Marco, S. Giorgio, S. Lorenzo, S. Andrea, S. Stefano e S. Vincenzo. In antico i morti nell'anzidetto Ospedale si seppellivano nei cosidetti "Mucchi dell'Acquasola". Appunto in quella località era il monastero delle Benedettine di S. Marta. Non potendo esse sopportare il fetore sepolcrale che di là esalava, cedettero ai protettori dello Spedale una porzione di terreno posto sulla sponda destra del Bisagno presso la Foce, sobbarcandosi di propria volontà la spesa per il trasporto dei cadaveri.
Il luogo ove era stato eretto quel cimitero dicevasi Prato della Lana [2],perché ivi solevano stendere la lana lavata i tessitori dei panni. E questo avveniva nei primordi del secolo XVI.
Nell'anno 1536, terminata la costruzione delle nuove mura della città, quel cimitero dovette essere ingombrato in quasi tutta la sua estensione per cui fu abbandonato. Allor se ne costrusse uno nuovo verso il mare, scavando nel vivo sasso a contatto con lo stesso mare dieci vastissime sepolture.
La tumulazione dei cadaveri in questo cimitero cessava nella metà del passato secolo, quando si schiudeva la vasta necropoli di Staglieno.
Agli uffici religiosi di questo cimitero serviva un devoto Oratorio intitolato alle Stimmate di S. Francesco ma nel volgo detto comunemente delle Anime della Foce. Questo oratorio ebbe origine nel 1602 ad opera del Ven. Bartolomeo Saluzzo francescano coadiuvato da G.B. Senarega e da G.B Castello. Quel religioso ne concepì l'idea predicando in quell'anno la Quaresima nella Metropolitana di S. Lorenzo.
Eretto l'Oratorio, questi divenne un vero focolaio di devozione del popolo genovese verso i defunti. Fu allora che la Confraternita istituita dallo stesso religioso per officiare l'Oratorio stabilì l'erezione di più altari e la formazione di una capace sacrestia per la cui costruzione nel 1736 Bartolomeo Bellagamba e Bartolomeo Bobbio stipulavano contratto con Alessandro Montesoro, procuratore delle monache di S. Marta, per ottenere un tratto di terreno presso il cimitero coll'offerta annuale di una candela di cera bianca lavorata del peso di tre libbre e mezzo.
Nel 1811 per decreto del governo napoleonico l'Oratorio fu chiuso e i suoi beni e arredi tra i quali un quadro con S. Francesco d'Assisi, di Bernardo Castello passarono alla parrocchia del Borgo Incrociati [3].
Riaperto nel 1814 per cura dei confratelli fu ristorato e arricchito di opere artistiche.
L'Oratorio era piuttosto ampio di forma rettangolare. Nella facciata era un affresco colle Anime Purganti, dipinto da Giuliano Ballino.
L'interno nella volta fu dipinto da Giuseppe Paganelli che vi espresse Maria in atto di intercedere per le Anime Purganti, La visione d'Ezechiello e La resurrezione del figlio della vedova di Naim, altre figure di virtù e profeti, tra ornati dipinti da Giacomo Picco.
Eranvi cinque altari. Sul maggiore era il quadro con N.S del Rosario, di Bernardo Castello e altri quattro quadri erano nei quattro altari minori cioè: S. Francesco d'Assisi, eseguito nel 1820 da Giuseppe Passano, S. Caterina da Genova, di G.B. Dellepiane detto il Mulinaretto, La decollazione di S. Giov. Battista, di Rolando Marchelli e l'Annunziata di Alfonso Spinga napoletano. Quest'ultimo prima del 1797 era a S. Marta. In questi oratori era così viva la devozione versoi defunti che in abbondanza vi piovevano offerte, in modo che nessuna chiesa di Genova riceveva tante limosine per celebrazione di messe come in questa. Difatti dal 1824 al 1838 i Superiori della Confraternita ricevevano tante limosine per 7560 messe e qualche volta anche 8000, in modo che ogni giorno vi si celebravano dalle 20 alle 24 messe. Ma quando cessò la tumulazione nell'attiguo cimitero e s'aprì quello di Staglieno, diminuirono i benefattori. Peraltro sino agli ultimi anni della sua esistenza, nell'Oratorio si celebravano ogni giorno non meno di sei messe.
Quivi le sacre funzioni vi si celebravano con isplendore e decoro essendo l'Oratorio fornito a sufficienza di sacri arredi. Non meno di sei volte l'anno vi si celebrava il Triduo delle Quarantore. La novena dei morti che si faceva nelle ore antelucane attirava sempre numeroso concorso non solo dalle vicinanze, ma anche dai punti più lontani della città, come dai popolosi rioni di Pre' e S. Teodoro. Immenso concorso eravi nella festa d'Ognissanti e ancor più nel dì successivo sacro alla Commemorazione dei Defunti, specie nella sempre commovente funzione della benedizione delle tombe. In altre epoche dell'anno nell'Oratorio si celebrava la festa di N.S. della Salute e di N. S. Mater Amabilis.
Questo oratorio e l'attiguo cimitero durarono in piedi sino al 1891, epoca in cui vennero distrutti per la costruzione di corso Aurelio Saffi che forma il secondo tronco della strada di circonvallazione a mare.
Ai piedi delle antiche mura presso le quali era il vecchio cimitero fu collocato una marmorea epigrafe ricordante i pietosi uffici ai quali era consacrato nel passato quel terreno. La Confraternita che ufficiava l'Oratorio, dopo essere stata per più anni priva di sede, nel 1907 trasferivasi nell'Oratorio di S. Maria, S. Bernardo e dei SS. Remagi presso S. Maria di Castello ove è ancora presente.

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[1] - Il piccolo Oratorio e l'attiguo Cimitero (distrutti per consentire la costruzione di corso A. Saffi), oltre a delinearsi nella precisa descrizione del Novella, fruì di due rappresentazioni figurative ad opera di Pasquale Domenico Cambiaso. Si tratta di un primo acquerello a seppia (P. D. Patrone - G. Blengino, 1982, pp. 62-63), dove è ben visibile la piccola costruzione chiesastica con il minuscolo campanile a vela sulla facciata e la struttura geometrica delle cinque tombe retrostanti, che, addossandosi alla massa rocciosa delle mura seicentesche nel punto detto Della Strega o Capo di Carignano dove esse piegano verso ponente, paiono quasi posate sulla ghiaia della riva destra del Bisagno fino a specchiarsi nelle ultime polle prima che le sue acque si fondano con quelle del mare. 
L'altra figurazione è un olio su cartoncino (cm. 20x35) appena variata nella "veduta" (L. Araghi, Genova, 1993, p. 20), assai meno particolareggiata ma non priva del garbato particolare aneddotico delle lavandaie che dispiegano il bucato al sole in una macchia bianca. Oltre all'immagine, si pubblica qui per una più incisiva memoria dei luoghi e delle situazioni, copia delle antiche planimetrie della chiesuola e del cimitero e relative alzate nel loro rapporto con gli scogli basali delle mura e naturalmente con gli ultimi lembi della riva destra del Bisagno. Si pubblica inoltre un progetto più tardo per l'ampliamento verso mare delle sepolture mai attuato perché ormai si profilava quello grandioso di Staglieno.
[2] - Il Prato della Lana doveva coincdere pressapoco con Piazza della Vittoria.
[3] - Nella chiesa parrochiale di Borgo Incrociati esiste attualmente un quadro con S. Francesco non attribuibile a Bernardo Castello.





UN RICORDO


Severino Fossati

   Da fonti orali si sa che nei primi decenni del '900 e forse fino a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando il prete andava a benedire le case nel periodo pasquale, si recava anche presso il muraglione di corso A. Saffi: pare che nessuno ne conoscesse il motivo, non ricordando che in quella zona vi era stato il cimitero.










IL LAZZARETTO DI GENOVA ALLA FOCE


 

 Rosa Elisa Giangoia


Torricelli (?), La Foce, il Lazzaretto e la collina di Albaro (Stampa, Sec. XVIII
Genova, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1342
      Nel XV secolo nella piana sulla sponda sinistra del Bisagno fu edificato un lazzaretto per l’isolamento e il ricovero dei malati contagiosi e dei passeggeri delle navi giunti in porto e soggetti a quarantena, soprattutto in occasione di epidemie di peste.
Ne parla Agostino Giustiniani, negli Annali della Repubblica di Genova (1537): 

E in questa piaggia a tempi nostri si è edificato uno amplissimo edificio quadrato e diviso in due parti, con chiostri e molte officine concedenti alla cura degli ammalati di morbo pestifero; alli quali, quando accade il bisogno, è benissimo provveduto. E da questa fabbrica verso la montagna, in larghezza di un miglio, e lunghezza di due, sono bellissimi e fruttiferi orti coltivati con molta diligenza; per il che producono ogni specie ed ogni varietà di erbe e di frutti ortilici in grandissima abbondanza. E questo territorio è nominato il piano di Bisagno; e contiene novanta otto fuochi sotto la rettoria della chiesa di SS. Nazaro e Celsogiunge alla piaggia, nominata la Foce, dove sono da otto a dieci case con la chiesuola di S. Pietro. E la piaggia è molto atta e comoda al varar delle navi, alquanto però meno che quella di S. Pier d Arena; come che sia più pietrosa e quella più arenile. »

    L’imponente edificio fu ampliato all'inizio del XVI secolo per iniziativa di Ettore Vernazza [1], notaio e filantropo, di cui si ignora la data di nascita, ma deceduto nel 1524, che poté avvalersi, oltre che del proprio patrimonio, del contributo di 7000 lire da parte del doge Ottaviano Fregoso. Questo edificio fu terminato nel 1515, pronto per ricevere i malati, grazie anche al reddito di 100 luoghi sul banco di San Giorgio che il Vernazza lasciò come dote del lazzaretto stesso. Ci fu poi un temporaneo trasferimento in Portoria, per ritornare definitivamente alla Foce, dopo che nel 1576 l’edificio fu ingrandito su disegni di Girolamo Ponsello e sotto la direzione dei capimastri lombardi Giorgio degli Agostoni e Rocco Pellone senior.
   
   L’edificio serviva per l’isolamento e il ricovero dei malati contagiosi, provenienti soprattutto dalle navi, ma qui furono ricoverati anche i malati dell’epidemia di peste del 1600,  di quella manzoniana del 1630 e delle successive ondate del 1656-1657, le quali determinarono la morte di ben 92000 persone. A proposito dell’ultima epidemia, il frate cappuccino sestrese Padre Maria Antero Micone da San Bonaventura (1620-1686), agostiniano scalzo, scrisse sul contagio e sul lazzaretto della Foce di cui fu direttore[2]. Testimonianza dell’assistenza dei malati è una tela del pittore Domenico Fiasella.
       


Acquaforte di Louis Garribeau (1787)

Nel Settecento, per la precisione dal 12 al 25 luglio del 1743, fu ospitato nel lazzaretto anche il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, che preferì trascorrere lì la quarantena in totale solitudine, piuttosto che nella promiscuità di Calata Sanità. Lo scrittore accennò a quest’ esperienza in un brano delle Confessioni (l. VII), da cui ho preso spunto per il mio romanzo In compagnia del pensiero [3], che ricostruisce la vicenda tra documentazione storica e fantasia.
         Lo scrittore francese si era imbarcato a Tolone, ma la feluca su cui viaggiava era stata fermata da unità inglesi, provenienti da Messina, dove infuriava la peste, per cui, all’arrivo a Genova dovette sottostare alla quarantena, che preferì trascorrere al lazzaretto, anche se era stato avvertito che non vi era alcun mobile. Infatti non vi trovò né un letto, né una sedia e neppure uno sgabello o un fascio di paglia per sdraiarsi. Scrisse infatti: «Dapprima mi divertii  a cacciare le pulci che avevo preso sulla feluca, e quando infine, a furia di cambiar vestito e biancheria, riuscii a liberarmene, procedetti all'arredamento della camera che m’ero scelta. Con gli abiti e le camice preparai un ottimo materasso; con varie salviette cucite insieme mi feci le lenzuola; con la vestaglia, una coperta; un cuscino, col mantello arrotolato; ricavai il sedile da una valigia distesa, e una tavola con l’altra posata sul fianco». I pasti gli venivano serviti in gran pompa, con la scorta di due granatieri, e poi poteva dilettarsi a leggere i libri che aveva con sé, ma anche a passeggiare nel cimitero, oppure salendo fino in cima all'edificio, dove da un lucernario che dava sul porto poteva osservare l’entrata e l’uscita delle navi.
Domenico Del Pino, Veduta del Lazzaretto Vecchio, della Foce,
del Bisagno con la collina d'Albaro dalle mura delle Cappuccine
(Stampa colorata a mano, prima metà del XIX secolo, Genova,
Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1355)

     L’edificio, più volte modificato, ebbe il suo maggior sviluppo agli inizi dell’Ottocento; infatti nel 1810 il prefetto imperiale francese Bourdon de Vitry diede l’incarico di ampliarlo ulteriormente al celebre architetto Tagliafichi. L’ampliamento fu sostenuto dal Comune e da donazioni di privati, ma l’architetto non poté vedere il compimento del suo progetto, perché morì prima del completamento.
    Il lazzaretto svolse la sua attività fin verso la metà dell’Ottocento, quando, con gli sviluppi della medicina, le sue funzioni furono trasferite al nuovo ospedale di Pammatone.
    L’edificio fu demolito, consentendo l’ampliamento del cantiere navale già da tempo esistente sulla spiaggia della Foce, e successivamente l’edificazione del quartiere d’abitazioni.

























  



[1] Fu seguace di Santa Caterina da Genova e nel 1512 lasciò disposizioni testamentarie perché all’Università degli Studi di Genova fossero istituite quattro cattedre di medicina. La sua vita è stata ricostruita da Federico Donavere nel volume Vie di Genova (Ed. Moderna 1512).
[2] Li lazzaretti della Città e Riviere di Genova del MDCLVII
[3] L’Autore Libri, Firenze 1994; Kanaga, Milano 2020.




JEAN-JACQUES ROUSSEAU NEL LAZZARETTO DELLA FOCE


 
"Era il tempo della peste di Messina, la flotta inglese vi aveva gettato l'ancora e visitò la feluca sulla quale io ero. Questo, arrivati a Genova dopo una lunga e faticosa traversata, ci costrinse ad una quarantena di ventun giorni. Diedero ai passeggeri la possibilità di scegliere, se farla a bordo o al lazzaretto, dove ci preavvisarono che non avremmo trovato che i quattro muri, perché non avevano ancora avuto il tempo di ammobiliarlo. Tutti scelsero la feluca. Il caldo insopportabile, lo spazio stretto, l'impossibilità di muoversi, gli insetti mi fecero preferire il lazzaretto, comunque.
   Fui condotto in un grosso edificio a due piani assolutamente spoglio, dove non trovai né finestra, né letto, né tavola, né sedia, e neanche uno sgabello per sedermi, né un mazzo di paglia per coricarmi. Mi portarono il mio cappotto, il mio sacco da notte, i miei due bauli; chiusero alle mie spalle delle grosse porte dalle grosse serrature e restai là, padrone di passeggiare a mio agio da camera in camera e da piano in piano, trovando ovunque la stessa solitudine e lo stesso squallore.
   Tutto ciò non mi fece affatto pentire di avere scelto il lazzaretto, anziché la feluca, e come un nuovo Robinson mi misi ad aggiustarmi per i miei venti giorni, come avrei potuto fare per tutta la mia vita. In principio ebbi lo svago di andare alla caccia dei pidocchi che avevo preso sulla feluca. Quando, a furia di cambiare biancheria e vestiario, mi resi, alla fine, pulito, procedetti all'ammobigliamento della camera che mi ero scelta. Mi feci un buon materasso con i miei vestiti e le mie camicie, delle lenzuola con parecchi tovaglioli che cucii, una coperta con la mia vestaglia, un guanciale con il mio cappotto. Mi feci una sedia con un baule messo piano, e una tavola con un altro che misi per costa. Tirai fuori carta e calamaio, aggiustai, come se fosse biblioteca, una dozzina di libri che avevo. In breve, mi sistemai così bene che, tranne le tende e le finestre, in questo lazzeretto ero comodo quasi come al mio giuoco della palla in via Verdelet. I miei pasti erano serviti con molta pompa; li scortavano due granatieri con la baionetta in canna: la scala era la mia sala da pranzo, il pianerottolo mi serviva da tavolo, il gradino inferiore mi serviva da sedia; e quando il mio pranzo era servito, ritirandosi, suonavano una campanella per avvertirmi di mettermi a tavola. Tra i miei pasti, quando non leggevo, né scrivevo, o non lavoravo al mio ammobigliamento, andavo a passeggiare nel cimitero dei protestanti che mi serviva da cortile, oppure salivo su una lanterna che dava sul porto e da dove potevo veder entrare e uscire le navi.
   Passai così quattordici giorni e vi avrei passato tutti i venti senza annoiarmi un momento, se il signor di Jonville, rappresentante della Francia, al quale feci giungere una lettera acetata, profumata e bruciacchiata, non avesse fatto abbreviare il mio tempo di otto giorni: andai a trascorrerli in casa sua e mi trovai meglio, lo confesso, nella ospitalità della sua casa che in quella del lazzeretto."

(traduzione di V. Sottile Scaduto in J.J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1988, p. 914)










IL LAZZARETTO DELLA FOCE NELLA PESTE DEL 1656-1657

Rosa Elisa Giangoia


   La peste che sconvolse Genova tra il 1656 e il 1657 interessò anche il lazzaretto della Foce, come possiamo comprendere da alcune notizie fornite da Romano da Cadice nel suo interessante saggio La grande peste. Genova 1656-1657[1].  Come si legge a p. 107, «Questo lazzaretto costruito alla foce del Bisagno da E. Vernazza, fu inaugurato nel 1612. Fu il primo ad essere aperto e l’ultimo ad essere chiuso nella grande peste. Assieme al lazzaretto della Consolazione fu il più grande e frequentato della città».
   A  p. 71, a proposito dei primi casi di peste, leggiamo che «… ai primi di settembre, nonostante la severa vigilanza, la peste varca le mura e riesce a diventare padrona dell’intera città. Il card. L. Raggi accusa un certo Armirotto, padre di sedici figli, e commissario al Lazzaretto della Foce, d’essere stato il responsabile di tale sciagura. Questo povero uomo non sapeva star separato dalla sua numerosa famiglia e faceva la spola tra il lazzaretto e la sua casa. Era fatale dunque che un giorno o l’altro avrebbe portato dentro l’infezione. Così fu.[2] Più o meno negli stessi giorni venne colpito un camallo in dogana e una famiglia nella Colla, poi i casi si moltiplicarono in un crescendo continuo e pauroso».
   Di particolare interesse è il capitolo I CAPPUCCINI NEL LAZZARETTO DELLA FOCE[3]
   In Liguria i Cappuccini erano giunti, forse su sollecitazione di Caterina Cybo che a Genova aveva parenti, verso il 1530 e, cosa significativa, si misero subito a servire all’Ospedaletto di San Colombano, fondato dal grande discepolo di Caterina Fieschi Ettore Vernazza[4], gli “incurabili”, cioè i malati rifiutati da tutti gli ospedali, soprattutto i colpiti dalla nuova vergognosa peste, cioè la sifilide.
   Da allora, scrive lo storico dei Cappuccini genovesi, P. Francesco Saverio Molfino, i Cappuccini di Liguria sembra che non abbiano avuto altra missione che questa, cioè di consolare i sofferenti negli ospedali, nelle carceri, nei lazzaretti, sui campi di battaglia. A somiglianza del Serafico Patriarca S. Francesco, essi posero le loro tende accanto agli asili del dolore, per vivere della vita di chi piange”.
   Nei lazzaretti avevano già servito con straordinario fervore nelle pesti del 1579-1580 e del 1630-1632. Quando scoppiò la peste del 1656-1657, essi furono i primi ad offrirsi i primi ad essere chiamati ed i primi ad entrare nel lazzaretto della Foce.[5]
   Per questo lazzaretto, dai superiori furono prescelti i padri Francesco M. da Porto Maurizio, Francesco da La Spezia e fra Pietro da Savona “i quali, dicono le cronache, à 24 del suddetto mese (di luglio), accompagnati tutti trè insieme, e ben disposti con sante confessioni, e dimandato perdono a tutti li frati in pubblico reffetorio con la corda al collo, e fatta la spropria,[6] come veri figli serafici, presa la benedizione dal padre Vicario Provinciale, si portarono dal Rev.mo Padre Inquisitore per servirsi della sua autorità in ogni occasione, che fosse venuta, qual ottenuta, indi si portarono dall’Eminentissimo Signor Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova, e prostrati alli di lui piedi dimandarono la pastorale sua benedizione, et autorità di tutti li casi, che benignamente concessali, abbracciandoli teneramente, ricchi di buona volontà e di desiderio grande di morire col martirio della carità, la sera delli 24 del suddetto mese di Luglio entrarono nel lazzaretto, recitando divotamente le Lettanie della Beata Vergine[7].
   La stessa cronaca parla del loro straordinario zelo e ci dice che per l’assistenza di questi buoni padri, “era tanta la consolazione dei moribondi, che si credevano subito d’andare in paradiso, se ne morivano quietamente ricevendo anco la raccomandazione dell’anima[8].
   I tre zelanti religiosi, dopo aver servito i fratelli appestati come se fossero ammalati comuni, incuranti di ogni pericolo, (fra Pietro portava a seppellire i morti sulle proprie spalle), colpiti dalla peste vi lasciarono uno dopo l’altro la vita.
   Con essi morirono pure i tre frati che vennero a sostituirli, cioè P. Giò Batta da Novi, che serviva i malati con tale amore da privarsi anche del proprio cibo per somministrarlo anche ai poveri infetti; il P. Giò Batta da Pieve di Teco e, come vedremo, fra Felice da Valpolcevera: sei Cappuccini dunque, tutti vittime generose ed eroiche di carità.

   Come si vede, questi frati andarono tutti incontro alla morte con cuore veramente grande, per servire i fratelli. Qualcuno però cominciò a criticare la loro sublime generosità, dicendo che erano troppo audaci ed imprudenti e che non dovevano servire gli appestati come malati ordinari.
   Il nobile Nicolò Spinola scrive in proposito: “Questi uomini al lazzaretto non ne vogliono più ricevere perché si espongono troppo liberamente senz’alcun riguardo che fanno danno a loro e terrore agli altri[9].
   Che dire di questo giudizio severo? Il P. Boverio, annalista dell’ordine, dice che era il loro stile servire gli appestati come malati ordinari, senza disdegnare il servizio più pericoloso di tutti: portare i morti sulle spalle; “ita ut mortem irridére ac contemnere quam metuere viderentur”, che in italiano potremmo tradurre così: “questi frati servivano con tale coraggio che sembrava che più che temere la morte volessero schernirla e sfidarla”[10].
   Noi moderni forse facciamo fatica a capirli, ma questi frati vivevano in un’ottica trascendente; essi, come scrive un cronista, non andavano al lazzaretto “muniti di teriaca, di pastiglie odorose, o belzoari, ma di ardentissima carità per Cristo[11] e ad essi per Cristo era dolce il morire.
   Essi volevano risparmiare al malato l’umiliazione di essere schivato come un rognoso; per essi egli era il fratello Cristo che aveva dato per loro la vita e che li attendeva nella vita eterna e questo traguardo (il paradiso) era il più atteso.
   È significativa in proposito la lettera con cui il P. Francesco da Portio Maurizio annuncia al fratello, che era vicario provinciale, la scoperta di un carbone, segno chiaro di peste: “Ecco, colui che tu ami è malato, se sarà per la morte non lo so; sia fatta però sempre la volontà di Dio; io sono tutto al volere divino e per la vita e per la morte, e lo prego a non riguardare le mie colpe, ma abbondarmi della sua pietà; dunque, fratello carissimo, arrivederci in cielo a godere Dio eternamente[12].



BIBLIOGRAFIA

ANTERO M. MICONE DA S. BONAVENTURA, Li lazzeretti della Città, e Riviere di Genova nel MDCVII, Genova 1658.
BRUZZA A.L., Sull’origine dei lazzaretti e del Magistrato di Sanità, Genova 1874.
PENDOLA C., Gli edifici antichi della città di Genova e sobborghi, Genova 1896.









[1] A cura del Centro Studi E. Bullesi, B.N. Marconi Arti Grafiche, Genova 1999 (2a edizione: De Fedrrari, Genova 2004, ‘’. 262, € 32,00).
[2] Cfr. A. COSTA, la peste in Genova negli anni 1656-57, Genova 1932, p. 2.
[3] Pp. 175-176.
[4] FRANCESCO SAVERIO MOLFINO, I Cappuccini genovesi, Note Biografiche, vol. I, Genova 1912, pag. 423. Ettore Vernazza morirà vittima di carità a Napoli assistendo gli appestati. P: CASSIANO DA LANGASCO: Ettore Vernazza, pag. 77, Genova1992.
[5] Ivi, pag. 427.
[6] “SPROPRIA”: termine fratesco per esprimere la consegna di ogni anche minima cosa avuta in uso dalla comunità.
[7] Arch. Prov. Capp., Cronaca Q, pag. 38r.
[8] Ivi, pag. 39.
[9] D. PRESOTTO, Genova 1656-1657, cronache di una pestilenza, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, V (n.s.) 1965.
[10]ZACCARIA BOVERIO, Annali De’ frati minori cappuccini, Giunti, Venezia 1645.
[11] ANONIMO, Operazioni dei Cappuccini nel servire gli appestati (sec. XVII) MS Archivio Generale.
[12] FRANCESCO SAVERIO MOLFINO, op. cit., p. 428.